Ricorda icasticamente l’autore che fino al “9 dicembre il candidato era Fanfani, il 21 dicembre divenne Leone”. In realtà, nelle votazioni interne al gruppo dei Grandi Elettori democristiani, la competizione si svolse tra il futuro Presidente della Repubblica e Moro. Su quest’ultimo pesava la pregiudiziale di quanti ritenevano troppo condizionata dal Pci la sua candidatura. Tuttavia, come ricorderà anni dopo Giorgio Amendola, l’unico a non chiedere nel 1971 l’appoggio dei comunisti fu proprio Moro.

L’intervista di Giancarlo Leone, ieri sul Mattino di Napoli, a proposito della elezione del padre Giovanni, già senatore a vita, a Presidente della Repubblica, mi ha fatto aprire il cassetto dei ricordi su quel dicembre del 1971. 

Posso dire di essere uno dei testimoni diretti. Partecipai infatti al rito della distruzione delle schede con le quali i grandi elettori della Dc avevano indicato alla delegazione composta da Forlani, Segretario Politico, i due presidenti dei gruppi camera e Senato, Andreotti e Spagnolli, e Benigno Zaccagnini presidente del Consiglio nazionale del partito, il nominativo del designato. Non doveva rimanere traccia del voto per non indebolire la candidatura, garantendo perciò unità e compattezza. 

Le schede di colore diverso tra Camera e Senato, tutte timbrate e vidimate dai componenti del seggio, dei 423 grandi elettori Dc, dopo  il voto espresso nella sala che sarà poi dedicata ad Aldo Moro al secondo piano, furono bruciate nella segreteria del Gruppo parlamentare al primo piano del Palazzo dei Gruppi in via Uffici del Vicario. Guidava le operazioni Luigi Salsedo, un napoletano di origine ma teutonico nel lavoro avendo sposato una bolzanina, mitico capo della segreteria del Gruppo insieme a Mario Salerno e al sottoscritto. In seguito ci saremmo dotati di macchine distruggi documenti, come avvenne per Cossiga nel 1995 e Scalfaro nel 1992, ma quella volta (si finì a notte inoltrata intorno alle tre del mattino) le schede furono bruciate a piccoli blocchi in un piccolo contenitore di metallo tenendo bene aperte le finestre per potere fare uscire il fumo, evitando che potessero scattare i dispositivi antincendio. Va detto che c’era un turno di notte dei commessi che ad orari prestabiliti faceva il giro degli uffici per marcare l’orario nei diversi ambienti e verificare lo stato dei luoghi. 

Giancarlo Leone ha fatto bene a ricordare la sua trepidazione. Ricordo che il fratello Mauro, già giovane docente universitario, venne al Gruppo e restò per molte ore nel salottino in attesa dei risultati degli incontri della delegazione. Non dimentichiamo che i figli di Leone erano cresciuti a Montecitorio e, raccontavano i commessi, da ragazzi andavano a giocare a pallone sulle terrazze. 

Ma veniamo alle questioni politiche. Durante la prima fase, quella della contrapposizione tra Fanfani e De Martino, pesarono i tentativi diretti ad incrinare l’unità della Dc. Fu pubblicata sull’Avanti la notizia che Scelba non avrebbe votato Moro come possibile candidato gradito alle sinistre, con conseguente rinuncia alla “opzione De Martino”. 

Mario Scelba  venne al Gruppo. Scrisse di suo pugno una smentita che chiese di far pubblicare sul Popolo, garantendo quella unità che fu poi mantenuta negli scrutini fino alla elezione. 

Andreotti rivelerà nel suo libro De prima Repubblica che il margine a favore di Leone “non fu  molto alto”. Giocarono a suo vantaggio la compattezza dei senatori e per taluni la preclusione verso Moro per la sponsorizzazione comunista.  Il 9 dicembre il candidato era Fanfani, il 21 dicembre divenne Leone. 

Se c’è un insegnamento da quelle vicende riguarda il metodo e le procedure, soprattutto quelle interne che erano granitiche in tutte le fasi. Elezioni interne a scrutinio segreto, mandato alla delegazione convocata in permanenza, riunione degli organi direttivi congiunti interni ai gruppi parlamentari, riunione della direzione. I grandi elettori venivano costantemente informati da circolari che venivano inviate nelle caselle dell’ufficio Postale al Piano dell’Aula. Tutte le regole erano rispettate. La democrazia interna della Dc non era un optional, ma un metodo!