Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Alda Merini, anima bella e sofferente, ricca di umanità e passioni (“poeti si nasce, non si diventa”): le siamo tutti debitori di sentimenti ed emozioni che la sua esperienza umana e letteraria ci hanno lasciato in dono come scintille di luce in uno scrigno prezioso.

Spinto dalla curiosità di conoscere alcuni testimoni del nostro tempo (e scoprendo – frequentandoli – che il loro essere grandi coincide spesso con una naturale vocazione alla semplicità, essendo capaci di lasciarsi attraversare dai marosi della vita conservando l’innocenza del cuore, la lucidità della ragione, le rare virtù della dignità e del pudore) ebbi la fortuna di incontrarla nella sua casa dei Navigli a Milano e di realizzare l’ultima intervista della sua vita. Un dono incommensurabile, per la straordinaria personalità della donna e dell’artista. L’avevo contattata con titubanza, mi ero presentato come “persona desiderosa di conoscerla”: mi aveva sorpreso il suo assenso a ricevermi. Suonando due giorni dopo alla sua porta di casa ebbi il timore di un suo ripensamento: sull’uscio era incollato un perentorio avviso: “non si ricevono giornalisti per interviste”. Ma poco dopo sentii la sua voce: “Entri pure, le ho lasciato la porta aperta”.

Era a letto, sorseggiava una granita e fumava la fedele sigaretta. Mi accolse con un senso di ospitalità che non potrò mai dimenticare, mi fece sedere a fianco a sè. Parlammo della sua vita, delle sue sofferenze fisiche e spirituali: la malattia, le cure, le percosse. Traspariva dal suo volto e dalle sue parole il senso della sua straordinaria personalità: ci sono persone non comprese, rese disadattate o dimenticate dalla vita cui si riservano tardivi riconoscimenti postumi. Così è stato per lei. Mi raccontò aneddoti personali (il cappotto che si fece prestare da un’assistente sociale per ritirare un premio alla Scala, l’invito in TV per una investitura ad un premio Nobel in cui lei stessa non aveva creduto, la sua vocazione alla maternità, il disprezzo per i luoghi comuni alimentati dalla TV e dalle tecnologie: “la gente non parla, blatera”…) .

Emanava un grande senso di sofferenza fisica (dopo una recente operazione) compensato da “visioni straordinarie”, da un rapporto intimo e confidenziale con Dio e la preghiera (“L’uomo ha fame di un miracolo che gli spieghi la verità. Io credo che Dio sia buono, la fiducia in Dio è per me l’unica fonte di consolazione”), da una visione concreta e disincantata della sua stessa vita: “Il genio è come un implume che vuole crescere ma c’è la gente che glielo impedisce e se lo divora”. La casa era disadorna, persino trascurata: ma si capiva che il suo pensiero era altrove, che sono i sentimenti e la sensibilità del cuore i valori da coltivare e alimentare. “Il silenzio per l’artista è una fonte d’oro: saper tacere. Purtroppo l’umanità tenta di impedire le occasioni di silenzio, l’uomo vuole riempirlo e distrugge il pensiero che deriva dal silenzio”. Non potei tacerle una domanda che si è rilevata risolutiva per capire , ogni volta che ci ripenso, la sua visione della vita. “Cosa può renderci migliori, più buoni?”. “Il perdono – mi rispose – come sentimento più alto”.