Rivista Ateneo, vent’anni di palestra culturale degli universitari di Torino: dal ‘50 al ‘70 è cambiato il mondo. Che dire, oggi?

Dalle lettura di "Ateneo", adesso in formato digitale, risulta che gli universitari, protagonisti di quella esperienza umana, non hanno acceso un fuoco di paglia. La rivista ha fatto da specchio ai mutamenti della società. Ed è una società che oggi presenta innovazioni ancora più radicali…

Una imprevista, straordinaria scoperta, che può essere interpretata come la scoperta, nei pressi di Pompei, di una anfora del tempo dell’eruzione del Vesuvio, ha permesso all’Archivio dell’Università di digitalizzare quasi vent’anni di “Ateneo” il quindicinale degli universitari dell’Università e del Politecnico di Torino, pubblicato dall’inizio degli anni ’50 al 1968. Giorni fa (il 23 febbraio) questo straordinario evento è stato al centro di un incontro in Via Verdi, storica sede del Rettorato, dov’era anche la sede della redazione di “Ateneo” negli anni ’50-’70. L’evento è stato introdotto da alcune relazioni su quella storia e da alcune testimonianze di studenti di quel lontano tempo, che qualche riflessione su ciò che è cambiato, anche nelle Università, può permetterlo.

Nell’autunno del 1952, ero “matricola”, partecipai ad una manifestazione organizzata a Torino dagli studenti, in concomitanza con la presenza in Rettorato di Luigi Einaudi; si trattava di un simbolico sciopero contro l’aumento delle tasse universitarie, non contro l’allora Presidente della Repubblica. “Ateneo” – la lettura, oggi possibile, di quel quindicinale lo conferma – ha dato notizia anche di quella manifestazione che si sarebbe persa tra le nebbie del tempo. In quella stagione, caratterizzata – dopo il ventennio del Regime – dal dibattito sulla Costituzione e da un diffuso impegno per la costruzione della democrazia, in molte Università erano sorte  analoghe iniziative, ma solo a Torino, per quanto si conosce, hanno assunto quella  continuità e quella qualità. Tuttavia anche “Ateneo”, dopo una vita vivace ma contrastata, segnata in quegli anni dalle alterne vicende degli Organismi Rappresentativi, da un dialogo politico che ha impedito il ridursi del confronto tra posizioni diverse all’egemonia di una parte sulle altre, cioè ad una egemonia, cessò le pubblicazioni. Stava tramontando, con la generazione che ricordava la Resistenza ed aveva pubblicato i primi numeri di “Ateneo”, anche la prima stagione della Repubblica.

Si pongono oggi alcune questioni. La prima riguarda il ruolo svolto da quella pubblicazione, che si rivolgeva ad oltre 15 mila studenti della regione (oggi, nelle due Università, sono più di cinquantamila) in anni in cui ancora non c’erano le Tv e non c’era la possibilità di comunicare e dialogare con gli strumenti offerti dai social. “Ateneo” era scritto e pubblicato da studenti che, nell’assemblea dell’Interfacoltà e del Consiglio universitario, erano rappresentati da diversi “gruppi”: dall’Intesa (di ispirazione cristiana), dai laici dell’Unione goliardica, dagli studenti di sinistra, dai monarchici di VivaVerdi e dai missini del Fuan. “Ateneo” era un foglio di otto, dieci pagine, con articoli di cultura e di politica, di informazione su temi organizzativi e sindacali. 

All’Università degli anni cinquanta avevano accesso solo gli studenti dei licei classico e scientifico; quell’Università era considerata “di élite”. Solo con gli anni ’60, iniziando con una sperimentazione, la aule delle Università si aprirono agli studenti che avevano frequentato le scuole tecniche e professionali. Quella dell’apertura delle Università ai giovani delle scuole professionali era stata una delle prime battaglie della democrazia universitaria. Ed a quella “sperimentazione”, che si consolidò in poco tempo, si deve il ’68, l’esplosone dell’Università di massa che ha messo alla prova le strutture universitarie. Una rivoluzione che investì anche gli organismi universitari; quella “democrazia rappresentativa” fu messa in crisi da un “movimento” subito animato dalla cultura dell'”assemblea”. Da quelle riunioni emergevano nuovi leader, e nel corso di quei dibattiti si sperimentavano nuovi modelli di azione, sempre più caratterizzati dal differenziarsi di tendenze alla ricerca di una propria identità politica.

Ogni nuova fase, per affermarsi deve cancellare quella che sta declinando: l’esperienza ci dice che per accelerare questo processo, questa transizione dal vecchio al nuovo, questo cambiamento di orizzonte, chi vuole cambiare ricorre anche alla riforma delle regole della democrazia, che è anche competizione. Aldo Moro dirà qualche tempo dopo, riflettendo sulla transizione che ha investito la politica nazionale, che “anche di crescita si può morire”. Parole che aiutano a capire anche la vicenda di “Ateneo”.

Dalle belle relazioni che abbiamo ascoltato e dalla lettura di “Ateneo”, oggi nuovamente possibile, risulta che gli universitari che hanno dato vita a questa esperienza umana non hanno acceso un fuoco di paglia: in seguito sono diventati professori universitari, medici, psichiatri di valore, si sono affermati come tecnici, industriali, avvocati e magistrati, giornalisti, scienziati e scrittori di successi. Per restare ai nomi più noti ai giovani lettori di oggi: Umberto Eco e Lorenzo Mondo. Ed hanno partecipato attivamente alle iniziative sociali di questa società, contribuendo alla costruzione di un welfare cui hanno concorso anche le riforme dell’Università, progettate in quegli anni. “Ateneo” si è occupato di diritto allo studio, di collegi universitari, di inserimento nell’ordinamento universitario delle attività fisiche e sportive, dell’assistenza sociale, di esami di stato, di nuovo rapporti con le corporazioni professionali. 

Comunque, quell’esperienza umana, quella stagione di passaggio dall’Università di èlite all’Università di massa, è stata interpretata allora coma l’inevitabile “proletarizzazione” del ceto medio, provocata dalla modernizzazione della società industriale, e quindi della classe operaia come classe generale. Non a caso quella interpretazione fu accompagnata dal proliferare di Università “private”: costose o “a numero chiuso”, diventate in questo senso il ricordo (e l’attesa?!) di un modello “borghese”, di un altro futuro,…americano.

Oggi potremmo dire  che anche quella è stata una stagione di transizione…un tempo rivoluzionario che sta passando, sotto la spinta ad un continuo e sempre più imprevedibile cambiamento…a livello globale. Un cambiamento che riguarda un capitalismo diventato sempre più plurale: “quale capitalismo”? Un cambiamento che riguarda il capitalismo, ma anche il pensare e l’organizzare la società…; non solo quello che racconta il declino dell’informazione scritta, la comunicazione via cellulari, il mondo dei social…Il tramonto del fordismo, dei grandi stabilimenti manifatturieri, della crescente competizione tecnologica e delle mutate professionalità, dei freelance; di un tempo libero che viene gestito da nuovi impegni di lavoro. Ma anche nuovi squilibri sociali e la scarsità di un lavoro “tradizionale”. Prima l’economia ha soppiantato la politica nel decidere sul presente e sul futuro; poi la “rivoluzione conservatrice” ha messo in crisi il riformismo socialdemocratico….Ma ora – lo notava in questi giorno Deaglio (che negli anni ’90 aveva scritto “liberali, non liberisti”) – ha bisogno di indicazioni e scelte dalla politica. 

Come interrompermi? In questi giorni il riferimento ai cambiamenti che continuano, sempre più imprevedibili, settant’anni dopo la fine di “Ateneo”, ci costringono a riconoscere che anche la riflessione sulla proletarizzazione immaginata dalla generazione del ’68 è sottoposta ad una nuova riflessione che costringe a guardare in un’altra direzione. 

Posso provvisoriamente fermarmi alla preoccupata constatazione di un intellettuale della sinistra storica, sintetizzata in un saggio pubblicato con un titolo emblematico: “Sinistra”. Scrive Schiavone: senza imprese non c’è più classe operaia cui affidare la guida della storia, non c’è più socialismo…bisogna rifondare la sinistra…Operazione molto impegnativa, poiché – nota un’altro politologo (in questo caso Andrea Grazioso, in “Occidente e modernità”) – negli ultimi anni la sinistra ha smarrito  con l’dea del lavoro anche quella di partito…con un radicamento ed un progetto concreto, mentre la destra esprime l’idea del partito che ha un perno nell’uomo forte: il partito del presidente…Una tentazione generale….Come resistere al ritorno del dispotismo?

[Intervento pubblicato sulla pagina Fb dell’autore. Per la riedizione su questo blog sono state apportate alcune minime correzioni di tipo formale]