Giornalista affermato, con particolare sensibilità per le vicende politiche e amministrative di Roma, Fabio Martini ragala ai lettori una rappresentazione dell’epopea di Nathan onesta e rigorosa, forte di un pathos equilibrato, al riparo da ogni retorica.

E fu subito Nathan. L’Italia ne restò sedotta, tanto da vivere poi, anche a distanza di molti anni, nella fascinazione della sua figura mitizzata. Subito, appunto: conquistò la scena, diventò protagonista di una svolta politica, s’insediò alla guida del Campidoglio per incarnare, secondo l’opinione comune, tutte le virtù della buona amministrazione. Un colpo di scena che conserva a tutt’oggi un potere enorme di rifrazione emotiva sulla sinistra e il mondo progressista in generale. Ce lo racconta bene Fabio Martini nella biografia dedicata, appunto, al più onorato sindaco di Roma, uscito per incanto dal cono d’ombra di una esperienza di amministratore, nella stessa realtà capitolina, come assessore (1889) senza grandi meriti.  

 

In copertina campeggia un titolo che riassume il senso di questa epopea: “Nathan e l’invenzione di Roma”. Indubbiamente efficace, la formulazione voluta dalla casa editrice (Marsilio) potrebbe essere rovesciata in “Roma e l’invenzione di Nathan”. Addirittura sarebbe più stimolante e attrattiva, invogliando a capire chi fosse realmente questo fervente mazziniano, ebreo e Gran Maestro della Massoneria, londinese di nascita e romano di adozione, claudicante nell’uso della lingua italiana. Dietro la sua consacrazione a simbolo di quella Terza Roma che il Risorgimento aveva sì evocato ma non appieno realizzato, si profila nel 1907 la novità di un’alleanza tra liberali, radicali e socialisti. Era questa il vero motore e insieme il collante di un’impresa politica che aveva nella monarchia un riferimento indiretto ma non invisibile, essendo Vittorio Emanuele III un sovrano ben restio a lasciare campo libero a Giovanni Giolitti, abile capo di governo dalle infinite risorse di manovra a livello parlamentare.

 

In controluce, l’operazione Nathan fa intravedere un moto di parziale aggiramento e surrogazione del riformismo giolittiano, essendo l’esperimento romano votato allo sviluppo di un contenuto più incisivo nella politica di graduale modernizzazione del Paese. Alla monarchia veniva anche attribuito un certo anticlericalismo ambizioso, non più legato alla salvaguardia dei “fatti compiuti”, acquisiti nell’ormai lontano 1870 con l’ingresso dei bersaglieri di Cadorna a Porta Pia, bensì proteso a concepire un’evoluzione della società italiana in aperto contrasto con il “potere dei preti”.

 

Martini ricorda, con grande onestà, che se non fosse intervenuta la decisione dell’Unione Romana di non partecipare alle elezioni municipali dell’autunno del 1907 – a giugno le urne avevano consegnato allo stallo l’amministrazione (40 consiglieri liberal-popolari e 40 consiglieri clerico-moderati) provocando perciò il commissariava mento del Comune e il ricorso a una nuova tornata elettorale – l’investitura di Nathan non sarebbe stata trionfale o comunque non avrebbe operato con disinvolta libertà, mancando di un’opposizione. A giugno, su un totale di 40.895 iscritti avevano votato in 24.447, un record rispetto al 1905,mentre immediatamente dopo, a novembre, erano stati appena 17.277 i voti espressi (di cui al Blocco popolare di Nathan andarono 16.245 voti). Da ciò si evince che un terzo circa della rappresentanza consiliare era virtualmente nelle mani all’Unione Romana.

 

Solo un’altra volta, nel lontano 1889, sulla scia della protesta per l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, i cattolici avevano adottato un analogo comportamento astensionista, piegando in via eccezionale il Non expedit, che faceva divieto di partecipare alle elezioni legislative, anche al campo amministrativo locale. All’epoca Leone XIII aveva minacciato di lasciare la Città, pensando di ritirarsi in esilio fuori dall’Italia; talché, in questo clima arroventato, con la fosforescente apparizione di un anticlericalismo elevato a rinnovata baldanza, doveva sembrare opportuna la fuoriuscita dell’Unione Romana dalla competizione per il Campidoglio. Orbene, il muro contro muro si riproponeva nel 1907 e induceva a compiere un passo nella medesima direzione adottando la scelta dell’astensionismo (a cui si accodarono altre due liste, quella dell’Associazione costituzionale nazionale e quella degli interessi di Roma). “Raccogliere questa sfida – spiegava il manifesto dell’Unione Romana affisso alla vigilia del voto – sarebbe defezione dal nostro programma”,  ovvero dal tradizionale programma di pacifica operosità amministrativa, senza risvolti e implicazioni di natura strettamente politica.

 

D’altronde la stampa socialista, in risposta ai cattolici che  vedevano nel Blocco popolare di Nathan un insieme troppo variegato di forze, dove uomini di destra e di sinistra davano mostra di artificiosa concordia, rinveniva proprio nella lotta alla cosiddetta tracotanza vaticana l’elemento di coesione. 

 

Il conflitto sulla scuola era l’epicentro della battaglia politica. Il libro mette in evidenza l’impegno della nuova amministrazione capitolina su quello che appariva il punto cruciale, tanto più critico, in effetti, quanto più finalizzato alla emarginazione della Chiesa. La Civiltà Cattolica, puntando il dito sui programmi scolastici degli ultimi comuni conquistati dai socialisti, in particolare Varese Alessandria e Firenze, denunciava l’illegale cancellazione dello spazio riservato all’insegnamento religioso. Dunque, istruzione ed educazione civile rientravano, a giudizio della Chiesa di Pio X, in un disegno neo giacobino di laicizzazione integrale dello Stato. E nel suo discorso di insediamento Nathan, in linea con il pensiero moderno, accennava al “riverbero nelle cento città, nelle mille borgate della penisola” sicuramente generato dall’esempio della sua Roma laica.  

 

Inoltre la diffidenza nei riguardi di Nathan si nutriva di dubbi e ironie per la repentina conversione alla causa monarchica. Poco prima di lanciarsi nella battaglia per il Campidoglio, commemorando Mazzini in presenza del Re al Collegio romano, egli aveva fatto appello a questa revisione con un argomento alquanto originale: “Se il gran patriota fosse stato ancora vivente, al cospetto di un sovrano adorno delle virtù civili di Vittorio Emanuele III, non avrebbe insistito nel suo ideale repubblicano”. 

 

Insomma, alla reazione ideale e politica contro il disegno attribuito alla massoneria si univa l’insofferenza nei confronti di un sindaco che nulla faceva per attenuare le tensioni con la Santa Sede, anzi ne faceva la bandiera del suo programma politico incorrotto. In un tempo segnato dalla crisi del modernismo, un movimento giudicato ereticale, Nathan non esitò a intrattenere buoni rapporti con don Brizio Casciola, intimo con alcuni esponenti della presunta eresia, che nel 1910 sarebbe stato colpito da scomunica. Ciò non toglie però che neppure tra i modernisti vi fu quell’afflato di simpatia che l’azione irregolare di Nathan poteva suscitare in funzione della polemica sull’autoritarismo ecclesiastico, per il quale i modernisti pagavano un prezzo molto alto. Invano si cercherebbe in don Romolo Murri, inquieto alfiere della prima democrazia cristiana e poi capogruppo alla Camera del Partito radicale, una traccia di apertura; come pure la si troverebbe nel pro sindaco di Caltagirone, Luigi Sturzo, pur impegnato a Roma nel 1911 con tutti i sindaci d’Italia, e quindi anche con Nathan, nelle celebrazioni del cinquantenario dell’Unità d’Italia.    

 

Su Nathan tace, per tutto il Novecento o meglio fino ai nostri giorni, l’universo del cattolicesimo politico: una rimozione che nasconde disagio. Fa eccezione, sul finire della campagna elettorale del 1946 per il Campidoglio, la prima dopo la Liberazione, la dura polemica scatenata dalla Dc guidata da Pietro Mosconi sul rilancio del mito di Nathan – ad essere incriminato era un editoriale di Tullio Vecchietti sull’Avanti del 2 novembre – come rinnovata espressione dell’alleanza tra le forze di sinistra e la massoneria. Ciò nondimeno alcuni aspetti sorprendenti costringono, in sede storica, a correggere il tiro di alcuni giudizi pietrificati e senza appello. Martini non si esime dal riconoscere, ad esempio, che la nomina dell’ingenere sardo Edmondo Sanjust de Teulada a direttore dell’ufficio tecnico del comune rientra in un quadro di apparente incoerenza: autore del Piano regolatore del 1909 entrò in Parlamento e, costituito il Partito popolare, vi aderì. Osserva acutamente Martini: “E il Piano tra i tanti oppositori non annoverò quelli di ambiente strettamente cattolico” (211). Andiamo oltre. Neppure deve essere ignorato l’appoggio dell’Unione Romana al referendum (114), previsto obbligatoriamente dalla legge Giolitti sulla municipalizzazione dei servizi, con il quale Nathan ottenne un larghissimo consenso popolare (oltre il 98 per cento) sulla prevista costituzione delle aziende capitoline dell’elettricità e dei trasporti (le antenate dell’Acea e dell’Atac). In realtà, sulla questione dei servizi a diretta gestione comunale, i cattolici avevano maturato a cavallo del secolo una linea che coincideva perfettamente con quella dei socialisti e delle altre correnti riformiste. Non era il “sociale” a dividere da Nathan le schiere dell’intransigentismo dei vecchi clericali e men che meno dei giovani democratici cristiani: c’era di mezzo un dissidio ideale.

 

Giustamente l’analisi di Martini, mai incline alla semplificazione, si sofferma sul ricco catalogo di atti  amministrativi e scelte urbanistiche che fanno da corona alla esperienza del sindaco progressista per antonomasia. Nulla da eccepire, perché Nathan ha dato molto alla Città in termini soprattutto di nuove prestazioni pubbliche nell’ambito dei servizi alla comunità e al territorio. Qui però andrebbe rilevato che forse Roma non è sola in questo avanzamento, né con Nathan si colloca di per sé all’avanguardia dei processi, visto che segue e ripete in buona parte l’esempio di grandi municipi come Milano e Torino. E vale poi, e non solo per Roma, un discorso più largo e approfondito in ordine alla incidenza dell’azione riformatrice di Giolitti, pena la riduzione dell’intervento dello Stato, nel primo e secondo decennio del Novecento, a politiche verticali e di settore (istruzione, assistenza, igiene pubblica, ecc.), non includendo in questo scenario le trasformazioni indotte da una spinta legislativa per nuovi compiti amministrativi e nuovi investimenti locali di cui, nel loro insieme, dovevano avvantaggiarsi i comuni italiani.

 

La “Roma del popolo” doveva infine crollare non sotto i colpi dell’opposizione cattolica, bensì a causa delle fratture incomponibili all’interno della “coalizione Arlecchino” di Nathan. Martini ne riporta le dinamiche, con molto scrupolo, dando una lettura meno enfatica e meno eroica del declino irreversibile. Sul piano nazionale, oltre che romano, si appalesa la caduta di un modello: unire forze tanto diverse alla lunga era impossibile. Con Nathan cade soprattutto, allo sguardo partecipe dell’autore, il riformismo socialista che aveva il suo campione in Giovanni Montemartini, il vero artefice del passaggio alla municipalizzazione dei grandi servizi a rete. L’11 novembre 1913, a pochi giorni dalle elezioni che videro i cattolici impegnati con il famoso Patto Gentiloni, freddamente accolto da Sturzo, a dare supporto alla traballante alleanza liberal-giolittiana, Nathan rassegna le sue dimissioni da sindaco. Era cambiato il quadro politico, non poteva ulteriormente prolungarsi la stagione che aveva portato il Campidoglio al centro della scena pubblica.

 

Che dire, in conclusione? Martini regala ai lettori una rappresentazione rigorosa, forte di un pathos equilibrato, sostanzialmente priva di retorica. Il giornalista abbraccia lo storico, e viceversa, così da comporre un’argomentazione solida ed armonica. È un libro, il suo, che merita di essere ascritto ai migliori contributi della vasta letteratura sul “caso Nathan”. Certamente da questo lavoro potrà derivare l’auspicabile ricerca di nuove fonti di ricerca e nuove linee di confronto, per assumere criticamente il retaggio di una vicenda narrata con invidiabile eleganza di stile e pregnanza di contenuto.  

 

  1. Martini, Nathan e l’invenzione di Roma. Il sindaco che cambiò la Città eterna, Marsilio 2021, 18 euro.