Se il grido di pace del Papa rimane inascoltato.

 Prospettive ed eventuali spiragli riguardo alla crisi russo-ucraina. Il ruolo della diplomazia italiana. L’autore esprime qui una sua tesi, non collimante con la posizione del gruppo redazionale, che muove dalla critica alla scarsa iniziativa del governo italiano in ordine alla ricerca della pace.

 

 

Marco Giuliani

 

Era successo pochissime volte che l’invocazione di un pontefice a favore di un compromesso mirato a incentivare la pace rimanesse politicamente inascoltata, o che divenisse persino oggetto di attacchi indiscriminati. La nutrita parte di media apertamente schierati, o svuotati di qualsiasi proposta atta a contribuire a una mediazione intesa a frenare la crisi russo-ucraina, ha portato, con la complice inconsistenza di una sana diplomazia di intermediazione, anche a questa detestabile eccezione.

 

Si sta parlando dell’attualità, che è strettamente legata agli avvenimenti più gravi relativi al XX secolo. Ricordiamo, a rigor di logica e per dovere di informazione, il peso che rivestì il ruolo di Benedetto XV negli anni della Grande Guerra (osteggiato, ma immolatosi a riferimento centrale e aperto al dibattito dei paesi belligeranti) e ancor più la posizione assunta da Giovanni XXIII nel 1962, quando la crisi di Cuba, che sembrò portare verso la catastrofe, condusse la Chiesa di Roma a trasformarsi in un importantissimo argine di pace a cui prestarono attenzione sia John Kennedy che Nikita Kruscev (il primo cattolico, il secondo nativo dell’Oblast’ di Kursk, confine russo-ucraino). La condizione di guerra che interessa i confini dell’Europa orientale ormai da un mese e mezzo sta provocando, oltre a dolore e distruzione, anche la progressiva decadenza dei valori fondanti sui quali poggia la nostra società: la convivenza, il compromesso e la libertà di pensiero. Papa Francesco, dal punto di vista etico, ne esce sicuramente rafforzato, ma allo stesso tempo viene defraudato della sua autonoma quanto naturale funzione diplomatica da una propaganda sempre più becera che tenta di distrarre l’attenzione da una serie di interessi senza scrupoli. Il suo secco «no ai bombardamenti e al traffico di armi» è riuscito nell’impresa non solo di scatenare l’ironia – per certi versi miseramente dispregiativa – di alcuni scrivani nostrani benpensanti e privi al contempo di idee che possano contribuire alla messa in atto del processo di pace, ma anche di suscitare l’indifferenza della nostra diplomazia.

 

Il grido di Francesco è stato, per alcuni versi, addirittura straziante poiché lucidamente e preventivamente consapevole di non essere ascoltato. Tuttavia, doveva almeno tentare. Così, se da un lato si avverte il disperato bisogno di trovare una soluzione concordata che fermi l’escalation, dall’altro traspare invece la grave carenza di iniziative (o impegno) che riescano a dare una svolta decisiva per il buon fine dei negoziati (premesso che questi siano iniziati). La Farnesina a trazione 5 Stelle appare avulsa da qualsiasi iniziativa unilaterale o viepiù concertata, ancorché priva di un’anima moderatrice; si tratta di quell’anima che contraddistinse la nostra diplomazia dopo il 1945, la quale, pur in un clima di guerra fredda, contribuì progressivamente al disgelo tra i due blocchi con politiche ponderate o comunque produttive, se non altro a livello intercontinentale. Cosa ne facciamo del prezioso lascito dei nostri Padri costituenti? Non c’è stata l’arte di intervenire prima del fatidico casus belli e non c’è stato, da parte della UE, un intervento lungimirante e compromissorio che avrebbe potuto evitare il peggio. Era così complicato far sedere a un tavolo le parti interessate? Eppure, le avvisaglie c’erano da anni.

 

Tra le migliaia di commenti che stanno caratterizzando il dibattito nella rete in questo tristissimo momento della nostra storia, alcuni giorni fa abbiamo letto anche l’affermazione «aridatece Andreotti!», con particolare riferimento alla stagnazione in politica estera della attuale classe dirigente italiana. Tenendo lo sguardo rivolto al passato, la risposta è No; purtroppo oggi non c’è più un De Gasperi ad interim, un Nenni agli Esteri o un Benedetto Croce senza portafoglio che espone il suo brillante pensiero. Non c’è la voce dello statista purosangue. Occorre farsene una ragione, ma ci domandiamo: perché dovremmo rassegnarci?

 

Ora come ora, non tutta l’opinione pubblica italiana riesce a girarsi dall’altra parte. Sicché, cresce il dissenso (anche questo, tra l’altro, strategicamente ridimensionato dalla nostra informazione allineata), che non è un dissenso partigiano, bensì un dissenso social-popolare il quale non accetta che l’Italia spenda, da qui in poi, 38 miliardi di € annui (circa 104 milioni al giorno) per il riarmo, equivalenti al famigerato 2% del Pil. Ma soprattutto, non accetta il senso di passiva estraneità – se non in termini di embargo verso la Russia – di fronte a una catastrofe che diventerà non più arginabile se non col dialogo, per quanto difficile, da avviare seduta stante.