Il mondo delle imprese da tempo chiede al governo di uscire dalle risse quotidiane e di impegnarsi in un progetto, concreto e tangibile, di politica industriale. Proprio la richiesta di maggiori investimenti pubblici è riuscita a far tornare in piazza i tre maggiori sindacati italiani, per la prima volta insieme dopo anni di incomprensioni.

E’ dunque molto tempestiva la decisione della casa editrice Mondadori di pubblicare la nuova edizione italiana degli scritti di John Maynard Keynes, un maestro del pensiero economico che ha insegnato come spetti anche agli Stati assicurare un certo livello di attività produttiva e di occupazione, garanzia che non si può lasciare solo alla “mano invisibile” del mercato (come teorizzava invece Adam Smith).

Il volume, pubblicato nella collana dei Meridiani, comprende la principale opera di Keynes, “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” e altri scritti, la maggior parte dei quali inediti in lingua italiana, tra cui la “Lettera aperta al Presidente Roosevelt” a pochi mesi dalla sua elezione, e il saggio su “Come pagare il costo della guerra” del 1944, nel quale Keynes anticipa l’idea delle politiche dei redditi. La nuova edizione è curata da Giorgio La Malfa, che la ha arricchita con una cronologia essenziale, che in realtà ne è un’interessante biografia.

Keynes non è solo un economista, ma è anche colui che ha ricondotto questa disciplina nell’ambito delle scienze sociali e morali. Che ha rovesciato, alle soglie della Seconda guerra mondiale, il predominio di un indirizzo dominante nei cinquant’anni precedenti: una concezione dell’economia che aveva cercato di assimilarla alle «vere scienze», alle scienze della natura. E l’aveva ridotta a una scienza arida e triste, al di fuori delle possibilità di comprensione e di attrazione per coloro che volevano, dagli economisti, un aiuto a capire e migliorare le società in cui vivono.

Keynes vinse la battaglia, e anche alla sua vittoria teorica è dovuto il mondo di ieri, i trent’anni di benessere diffuso di cui i Paesi capitalistici e liberali avanzati hanno goduto tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso. Ma non vinse la guerra e la reazione degli economisti tradizionali non si fece attendere per molto, anche con buone ragioni. Sicché oggi la disciplina versa in uno stato di frammentazione.

Non sempre è vero, anzi lo è di rado, ciò che diceva Mao Zedong: «La confusione è grande sotto il cielo. La situazione è eccellente». Ma questa volta lo è. E questa benefica confusione è soprattutto merito di Keynes: è dovuta alla rottura del vaso di Pandora del paradigma dominante. Dunque alla riconduzione dell’economia alla via maestra delle scienze morali e sociali e di conseguenza ai dissensi e ai conflitti di opinione che inevitabilmente le attraversano.

Quali sono le lezioni di Keynes oggi? La situazione odierna, in Italia e in Europa, è profondamente diversa da quella sulla quale Keynes ebbe modo di riflettere, ai tempi della “Grande depressione” degli anni Trenta e dell’assetto che le economie capitalistiche liberali e democratiche si diedero a Bretton Woods nel 1944. Nonostante la grande crescita del reddito, la disoccupazione e la povertà ancora incrinano la coesione sociale di molti Paesi. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così veloce e profonda che non riusciamo a capire come sarà organizzata la società del prossimo futuro, e se riuscirà a dare lavoro, dignità e reddito ai suoi cittadini.

Non sappiamo, dunque, come Keynes avrebbe risposto a queste sfide. Ma sappiamo come le avrebbe affrontate. L’avrebbe fatto convinto che un capitalismo temperato da interventi pubblici necessari, nel contesto di un ordine politico liberaldemocratico, può trovare una buona soluzione ai problemi della convivenza umana. In economia non ci sono leggi ferree che si impongono con la necessità delle leggi naturali e una «discrezione intelligente» può sempre prevalere su «regole stupide». Se qualcuno trova un’assonanza con quanto una volta disse Romano Prodi (a proposito del Patto di Stabilità) questa non è casuale: Prodi si riferiva a Keynes. Una discrezione intelligente, orientata al bene comune, esige però classi dirigenti capaci di esercitarla. E questo è un problema non proprio trascurabile.