Senza i Popolari il Pd scivola (con Zingaretti) nella palude della sinistra

Stiamo entrando nel vivo del dibattito congressuale. Finora l'immagine offerta all'esterno ha dato l'idea di un Pd lacerato e immobile, con voci discordanti sul futuro di questa peculiare esperienza politica.

Articolo già apparso sulle pagine dell’huffingtonpost

Stiamo entrando nel vivo del dibattito congressuale. Finora l’immagine offerta all’esterno ha dato l’idea di un Pd lacerato e immobile, con voci discordanti sul futuro di questa peculiare esperienza politica. Dopo il ritiro di Minniti il confronto si è polarizzato attorno a due figure principali,quella di Martina e quella di Zingaretti. Ci possiamo attendere, a questo punto, una definizione più chiara dei rispettivi programmi. A tutto possiamo adattarci, infatti, meno che a un dibattito generico e reticente, magari per paura di perdere consensi tra gli iscritti e gli elettori delle primarie.

Martina ha sciolto la riserva al tempo giusto e con giuste motivazioni, avendo riscosso apprezzamenti sinceri in questi mesi di reggenza al Nazareno. La sua posizione appare la più contigua alla linea seguita finora, se non altro per il ruolo che egli ha ricoperto dal 2014 al fianco di Renzi. Tuttavia, sull’onda di una domanda di cambiamento, anche Martina deve aggiornare la sua proposta come possibile segretario del partito. Al pari di Renzi, anche Martina tiene il punto sui 5 Stelle: troppe divergenze ideali e politiche impediscono di pensare a un’alleanza con il Pd. Da ciò deriva, però, l’esigenza di dilatare la capacità di dialogo e rappresentanza, altrimenti il “riformismo in un solo partito” diventa la scatola vuota di ambizioni e desideri, senza tenore politico.

Al contrario, Zingaretti sostiene una linea di movimento – quasi ingraiana nella sua genesi antica – che reca in seno la potenziale ricostruzione di una sinistra più larga e più unita, non ostile alla ricomposizione di un’alleanza di progresso in cui il grillismo possa ritrovarsi e amalgarsi, quasi per evoluzione spontanea. Zingaretti è sincero quando afferma che oggi l’accordo con i pentastellati non è in agenda; ma ciò lascia intendere che un domani, forse neppure lontano, questo accordo si possa trovare. Molto dipende dal cambiamento che il Pd saprà realizzare, superando le schizofrenie di un “modernismo” – così sembra dire il Governatore del Lazio – che appare alieno dalla tradizione e dalle attese del popolo di sinistra.

Altre candidature, a prescindere dalla loro fortuna, assolvono al compito di portare a maggiore evidenza alcune “verità interne” presenti nelle piattaforme dei due principali antagonisti. Cosa possano aggiungere, al punto di attingere una sorgente ideale e politica in grado di rappresentare una vera alternativa, è difficile dire. Tanto varrebbe che si accingessero, fin da subito, a condizionare l’una o l’altra delle candidature, senza pretendere di esercitare una funzione autonoma. Il partito ne ricaverebbe un indubbio vantaggio.

Il problema, tuttavia, è che l’attuale dialettica in formazione espunge la verifica sul modello di riformismo originariamente pensato al di là delle ideologie del Novecento, ma non fuori da un perimetro di idealità condivise. Manca, ora più ora meno, l’ingaggio con la questione dell’umanesimo cristiano, da non confondersi con la decaduta e non più proponibile (ammesso che sia esistita davvero) figura di “partito cristiano”. Oggi, invece, il fermento che agita la frontiera del cattolicesimo politico richiede un’analisi più approfondita, specie in un tempo che coincide con il ricordo dell’appello ai liberi e forti, lanciato da Sturzo precisamente cent’anni fa. Sì può far finta che tale rievocazione va sempre più assumendo una densità di contenuto e significato, tale da provocare l’attenzione dei media sul cosiddetto “partito dei Vescovi”?

Non dare risposte a un segmento di elettorato esigente, intriso di valori cristiani, significa impoverire la formula di un nuovo Pd. Si rischia di pensare il rinnovamento come un’algida competizione, sul suo stesso terreno, con il pragmatismo selvatico dei populisti. Questo è ciò che dobbiamo evitare. Ma forse, per evitarlo, serve davvero il contributo dei Popolari, dentro e fuori gli attuali confini del nostro partito. Se la volontà politica dei Democratici consiste nel giustapporre un programma radicalmente diverso dal populismo, in un modo o nell’altro occorre mettere in conto che l’apporto del popolarismo non può essere derubricato a mero abbellimento di una leadership genericamente nuova.

Dietro l’angolo si nasconde il nemico di sempre, ovvero il fantasma di una sinistra autoreferenziale, pronta a scommettere su Zingaretti per tornare al mondo di ieri, alle sicurezze passate, non importa se deperite e smorte. Il Pd si salva, invece, attraverso la ripresa di ruolo dei Popolari. In questi anni si sono adoperati, spesso in silenzio e con umiltà, a tessere la tela del “fare insieme” nella speranza di vedere un partito aperto, più amichevole e ospitale verso il mondo vitale del nostro cattolicesimo di base. Questa deve essere la scommessa da proporre ancora, con tenacia e serenità. Senza pretendere nulla, eccetto il rispetto di valori e principi meritevoli di adeguata considerazione.