Sfida sul Pacifico

Come ben sappiamo, il baricentro dellimpegno e degli interessi americani in questa prima metà di secolo è diventato lOceano Pacifico. Ciò che succede in Estremo Oriente ha grandi ripercussioni sull’Europa e l’Occidente. Se Macron fa la voce grossa con gli Usa, dopo l’accordo sui sottomarini nucleari tra Washington e Camberra, ne consegue che la responsabilità di Parigi in materia di difesa comune europea si accresce notevolmente.

 

Enrico Farinone

 

“In un’era di rinnovata grande competizione, lo sforzo di modernizzazione militare cinese, incluso quella navale, è divenuto il focus principale della pianificazione e del budget della Difesa degli Stati Uniti. La Marina cinese, che Pechino sta costantemente modernizzando da più di 25 anni…è diventata una formidabile forza militare…e costituisce un elemento chiave della sfida cinese allo status di potenza militare leader nel Pacifico occidentale detenuto da molto tempo dagli Stati Uniti”. Queste parole, contenute nella recentissima informativa predisposta per i parlamentari dal Servizio Ricerche del Congresso (“China Naval Modernization: implications for US Navy capabilities”) testimoniano meglio di qualsiasi commento quanto reale e profonda sia la preoccupazione americana circa la crescente assertività, anche militare, della Cina di Xi Jinping. E ci dicono anche dove risiede il focus geografico delle preoccupazioni, e quindi dell’impegno ad esse correlato, di Washington: l’Oceano Pacifico.

 

Bisogna partire da qui per comprendere tutte le recenti mosse dell’Amministrazione Biden: dal ritiro delle truppe dall’Afghanistan, al recentissimo accordo (“AUKUS”) con Australia e Gran Bretagna per la produzione di sottomarini a propulsione nucleare armati con missili da crociera destinati al paese dei canguri, passando per il rinnovo dell’ultradecennale accordo militare e di mutua assistenza con le Filippine e per il rafforzamento (corroborato da una generosa fornitura vaccinale) dell’alleanza QUAD con la stessa Australia, il Giappone e l’India.

 

L’estate nella zona del Mar Cinese Meridionale ha visto un pullulare di esercitazioni navali, prima cinesi e poi congiunte USA-Singapore. Il comando della Settima Flotta giustifica la propria accresciuta attività denunciando le restrizioni illegittime spesso imposte dalla Marina cinese a passaggi di navi civili sulla base di una ormai annosa rivendicazione di sovranità quasi totale di quelle acque (delimitate arbitrariamente sin dal 1947 sulla base di un tracciamento cartografico delineato da Pechino, la Nine-dash line, mai riconosciuto dai Paesi dell’area, diversi dei quali storici alleati degli americani). Su queste acque i cinesi hanno negli ultimi anni costruito isole artificiali e postazioni militari che ovviamente hanno provocato proteste e generato preoccupazioni più che comprensibili. Cinque anni fa la Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja ha giudicato non fondate le rivendicazioni cinesi ma il Dragone non ha riconosciuto la sentenza dopo aver persino rifiutato di partecipare al processo, istituito in seguito ad una denuncia di Singapore.

 

Queste notizie ci dicono diverse cose, ognuna delle quali meritevole di un adeguato approfondimento da parte dell’Unione Europea. Innanzitutto, come è evidente, la conferma che il baricentro dell’impegno e degli interessi americani in questa prima metà di secolo è l’Oceano Pacifico. Una svolta annunciata dalla fine dell’Unione Sovietica e poi imposta dalla crescita esponenziale della Cina in ogni settore economico durante gli ultimi venti anni e dalla sua parallela aggressività geopolitica e commerciale ben rappresentata dalle azioni poste a margine della Belt & Road Initiative, la “Via della Seta” terrestre e marittima che da est muove verso i mercati dell’Europa e anche verso l’Africa.

 

 

Questo nuovo baricentro geopolitico determinerà alcune variazioni nella concezione e nel ruolo dell’Alleanza Atlantica. Il tema lo pose un paio d’anni fa, con poca diplomaticità, il Presidente francese Emmanuel Macron, mentre ancora lo scorso giugno quello americano lo ha elegantemente glissato. A questo punto, però, non si può far finta di nulla, posto che – dopo il caso afghano – anche in questa occasione la NATO non è stata minimamente né interpellata né informata dai sottoscrittori del nuovo patto “AUKUS”. Un accordo anglosassone che, occorre riconoscerlo, sembra ravvivare la “special relationship” fra i Paesi di lingua inglese. Buone notizie per Downing Street, che su di essa ha puntato molto da quando ha deciso di uscire dalla UE. La speranza di tornare a giocare un ruolo internazionale nell’area più importante del globo rafforza la convinzione di aver fatto bene ad abbandonare Bruxelles. Alla quale ultima, nel momento in cui si comincia a riflettere sul serio e non in termini accademici sull’opportunità di una Difesa europea, l’addio di Londra dal punto di vista militare ha fatto male, e non poco, data la potenza della Royal Air Force e della Royal Navy.

 

In questi giorni si parlerà molto del forte disappunto espresso da Parigi con le modalità diplomatiche più dure a causa della perdita di una commessa militare invero assai rilevante (56 miliardi di euro). Il tema verrà discusso fra Macron e Biden e non è difficile immaginare che una qualche forma di compensazione verrà trovata. Ma questa vicenda rafforza la responsabilità della Francia rispetto al tema della Difesa europea, della quale evidentemente essa porterebbe la leadership.

 

Col rafforzamento della Royal Australian Navy, che sarà la settima al mondo dotata di sottomarini a propulsione nucleare (che offrono la possibilità di effettuare operazioni su più lunghe distanze in virtù della maggiore autonomia garantita) viene riconosciuto il ruolo strategico di Canberra nel contenimento di Pechino nel Pacifico. Del resto gli australiani hanno verificato sulla propria pelle cosa significhi criticare i cinesi su temi delicati (lo hanno fatto chiedendo chiarezza sulle origini del Covid-19 e ricevendo come risposta una raffica di sanzioni economiche che hanno colpito duro le finanze nazionali). E quindi la loro propensione a realizzare affari con la Cina è stata ridimensionata, riattivando la vena Commonwealth (il Capo dello Stato è pur sempre Sua Maestà britannica Elisabetta II^).

 

Conclusione provvisoria: il ritiro americano da Kabul ha un profilo strategico. Si abbandonano le aree del mondo di minor interesse e si aggiorna il profilo geopolitico delle alleanze: nel caso, l’India (che dalla vicenda afghana rischia di subire impatti negativi di una certa gravità) viene associata (tramite il QUAD) al quadro strategico principale imperniato sul Pacifico assicurandole in ogni caso protezione col considerare come prioritario anche l’Oceano Indiano. Ora, l’Alleanza Atlantica fra Stati Uniti ed Europa dovrà ragionare su quale strategicità debba essere assicurata al Mar Mediterraneo (e ai confini orientali della UE). E’ del tutto evidente che Bruxelles, nel confronto con Washington, dovrà avere una voce sola. E qui si apre un capitolo di un libro che finalmente bisognerà avere il coraggio di scrivere.