È per tutti una grande gioia poter riavere Silvia Romano viva e libera di nuovo tra di noi.
Lei era in Africa per testimoniare una vocazione al servizio ed alla cooperazione internazionale: una delle grandi esperienze morali e civili del nostro a Paese.
Per questo occorre essere grati a chi ha operato per il prioritario obiettivo della sua vita e della sua libertà.

Speriamo che anche gli altri italiani ancora prigionieri delle varie bande fondamentaliste siano presto restituiti alle loro famiglie e alle loro comunità civili e religiose.
Mi viene alla mente Padre Paolo Dall’Oglio, che qui in Trentino abbiamo avuto modo di conoscere e di sostenere nel suo coraggioso impegno missionario in Siria.
Per come si è svolta e si è conclusa, ma sopratutto per come è stata rappresentata dallo Stato e anche da lei stessa, questa vicenda deve però stimolare qualche rispettosa riflessione.

C’è una questione che più di altre inquieta: le modalità con le quali si è “rappresentata“ la conclusione di questa vicenda hanno comportato o no una sorta di “aiuto di immagine” per Al Shabaab e per i movimenti fondamentalisti islamici, in Africa e nel mondo?
Purtroppo, temo, la risposta è affermativa.  Si poteva evitarlo? Forse si, almeno in larga parte.

Una prima riflessione riguarda Silvia Romano. Lei ha confermato, appena sbarcata a Ciampino, con le forme esteriori e con le parole, la sua conversione all’Islam.
La libertà di credo religioso è uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra filosofia democratica. Guai a noi metterla in discussione e mancare di rispetto ad ogni decisione personale al riguardo.
Ma è giusto chiedere: occorreva proprio esibire ora, in maniera così plateale e scenografica, questa scelta intima? Ed occorreva proprio accompagnarla con reiterate affermazioni di essere stata sempre trattata “bene e con umanità”? E dire che nel corso della prigionia ha avuto modo di “apprendere” la cultura e le ragioni dei propri sequestratori?

Ciò che pone interrogativi, dunque, non è certo la dichiarazione di conversazione all’Islam, ma il dubbio che essa sia maturata nella condivisione di quell’Islam che Al Shabaab intende rappresentare e testimoniare con il suo fondamentalismo armato.
Capiamo tutti che dopo 18 mesi di prigionia la situazione psicologica di chi viene liberato è particolare. Speriamo che nei prossimi tempi Silvia possa avere parole chiare su questo punto. Chiare, almeno, come quelle dei tanti islamici che ripudiano, anche a loro rischio, il fondamentalismo e la violenza.
Di “questo” Islam il mondo (e l’Europa) ha bisogno, per una grande alleanza delle religioni a favore della pace, della democrazia, di un nuovo umanesimo universale, come ci insegna Papa Francesco. Non certo dell’Islam delle bande terroriste, che tengono in ostaggio non solo cittadini occidentali, ma intere popolazioni stremate in Africa e in altre parti del Mondo, forti di un potere criminale ammantato di religione e spietato contro i diritti umani e civili.

Una seconda riflessione riguarda lo Stato italiano ed il comportamento dei suoi organi di Governo. Hanno agito giustamente per favorire la liber azione di Silvia Romano.
La Repubblica Italiana ha messo a disposizione per la sua liberazione le risorse umane dei propri Servizi Segreti (anche con inevitabile rischio: ricordiamo il sacrificio di Nicola Calipari nell’analogo caso Sgrena), ingenti risorse finanziarie (come è giustificato) ed anche rapoorti diplomatiche non facili da gestire con gli alleati tradizionali, in particolare riferiti alla cooperazione con i Servizi Segreti turchi, ben simboleggiata dalla ormai famosa foto del giubbetto protettivo con la loro sigla addosso a Silvia.

Forse, tuttavia, un atteggiamento più sobrio, nella gestione pubblica della vicenda finale, non avrebbe guastato: al di là della ridicola, puerile e desolante polemica tra Palazzo Chigi e Farnesina.
La discrezione, in questi casi, non si impone solo nelle fasi di pianificazione degli interventi da parte dei Servizi e durante le trattative. È utile anche nelle fasi conclusive. Se non altro per non scaricare nella contesa mediatica e politica (come è altrimenti inevitabile) la discussione su tutti gli aspetti di una vicenda che, come risulta ovvio, non può che comportare anche elementi di oggettiva e dovuta riservatezza.