Si è concluso ieri, 30 agosto, al monastero di Camaldoli la Settimana teologica organizzata dal Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic) sul tema «Fede e politica. Un dialogo da ricominciare». Pubblichiamo l’intervento – tratto dall‘Osservatore Romano –  del priore di Bose intitolato «Spiritualità e politica».

Luciano Manicardi

Papa Francesco, nel discorso all’Azione cattolica italiana del 30 aprile 2017, ha rivolto un invito all’attivo impegno politico: «Mettetevi in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola». Penso che una “grande politica” debba essere costruita e debba seriamente confrontarsi con la dimensione della spiritualità. Provo a indicare alcuni aspetti che, a mio parere, sono parte essenziale del rapporto tra spiritualità e politica, e contribuirebbero a ridare grandezza e nobiltà alla politica. Ovviamente la spiritualità di cui parlo ha un’accezione ampia, laica, che può certamente supporre una fede religiosa, ma che concerne ogni uomo in quanto tale, ogni uomo abitato dalla questione del senso. Spiritualità ha dunque a che fare, in questa accezione larga, con la ricerca e la costruzione del senso del vivere, responsabilità, questa, che concerne ogni individuo colto nella sua unicità e originalità ma anche la collettività che gli umani costruiscono e pertanto costituiscono.

Coltivare l’interiorità è il primo passo per la costruzione e per la partecipazione feconda alla vita della polis, perché è il luogo dove si forgia la libertà, dove si elabora e si radica la convinzione che conduce a scelte e decisioni, dove matura la forza di dire di no, dove si pensa l’oggi e si immagina e progetta il futuro. In questo senso, nutrire una vita interiore è anche virtù del cittadino, virtù politica. Chiamato a divenire se stesso, ogni uomo ha anche il compito di costruirsi in relazione con gli altri, di costruire dunque un “noi”, e ha la responsabilità di costruire non solo “con”, ma anche “per” gli altri la casa comune. La responsabilità per gli altri è direttamente la responsabilità per il futuro e per le generazioni future, per l’umanità a venire.

Secondo Hannah Arendt, la pluralità e la diversità degli uomini sono i due elementi da cui scaturisce la politica. Il “tra”, lo spazio “infra” è l’elemento da cui nasce la politica che si configura così come relazione. Questo spazio, per la Arendt, è l’agorà, lo spazio pubblico, ed è lo spazio vuoto, la distanza tra le persone. Governare pluralità e diversità delle persone garantendone la libertà è il compito della politica, mentre il totalitarismo è l’annientamento della pluralità e lo spegnimento della diversità, l’eliminazione dell’infra e ovviamente della libertà. Così connessa alla pluralità e alla diversità umana, come pure alla libertà, la politica mostra la sua grandezza nel proporsi come luogo di realizzazione dell’esistenza umana autentica.

Una spiritualità che incontri la politica non può che ispirare una politica dei volti, una politica attenta prioritariamente ai più deboli e indifesi tra i cittadini, una politica sensibile alla sofferenza, che ascolta il grido «perché mi viene fatto del male?», grido che spesso resta inespresso perché chi più subisce violenza è spesso chi meno è capace di esprimersi. Una politica in cui il “noi” della collettività vuole articolarsi con il massimo rispetto per l’“io” di ciascuno, con il volto e con il corpo di ciascuno. Ovvero con quella unicità della persona in cui consiste, per Simone Weil, la sacralità della persona stessa. Quel volto, quegli occhi, quel corpo che mi sta davanti: ecco il sacro di quella persona, il sacro che lui è. Questa sacralità ha la sua scaturigine nel bene e non sopporta che le venga fatto del male. Scrive Simone Weil: «Ogni qualvolta sorge dal fondo di un cuore umano il lamento infantile che il Cristo stesso non ha potuto trattenere, “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia». La politica non può non essere interpellata da quel volto e da quel grido. Non sarebbe certamente una grande politica quella che provoca un tale grido. Anzi sarebbe ben meschina.

«La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritenesse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche — in un senso molto sobrio della parola — un eroe. E anche chi non sia né l’uno né l’altro deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venire meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: “Non importa, continuiamo”, solo un uomo siffatto ha la “vocazione” (beruf) per la politica». Le parole di Max Weber circa l’uomo che fa politica fanno emergere una sua dimensione nascosta, profonda, che si sottrae all’apparire, che rifugge l’esibizione, che abita la profondità e la solitudine, che detesta la superficialità. Parlare di spiritualità e politica richiede anche di parlare della qualità umana della persona che si dedica alla politica, che ha la vocazione alla politica o ne fa una professione (beruf). In questo professare la politica egli unifica mestiere e credenza, professione e professione di fede, unifica le due dimensioni della responsabilità e della convinzione. E di entrambe ha bisogno il politico, in quanto ogni causa a cui egli si consacri, questa esige una fede. In particolare, la politica, che porta l’uomo a gestire forza e potere, porta con sé pericolose tentazioni, conduce al confronto con il male, a sentire seduzioni potenti e perciò richiede discernimento e saldezza, conoscenza di sé e lotta interiore, capacità di dominio di sé e di autolimitazione, capacità di volere e di dire di no. Max Weber sottolinea la tentazione della vanità come particolarmente insidiosa per il politico. E noi possiamo sottolineare la virtù della coerenza come particolarmente apprezzabile e auspicabile nei responsabili della cosa pubblica.

Un ultimo aspetto necessario a una politica degna di questo nome è l’etica della parola. Il “tra” in cui si realizza la politica è abitato anzitutto dalla parola, da quella realtà umana costitutiva che è anche al cuore di ogni realizzazione spirituale. L’uomo è un essere politico in quanto è un essere dotato di parola. La democrazia vive di parole scambiate, di dialogo, di confronto, di concertazione, di parole che diventano norme e leggi, di parole che stringono alleanze. La parola democratica è lo strumento che elabora spazi sostitutivi della violenza rendendo possibile la convivenza civile e creando possibilità di pacificazione dei conflitti. Come dunque la responsabilità della cosa pubblica è anche responsabilità della parola, così la corruzione della parola è anche corruzione della democrazia. Quando nello spazio pubblico e da parte di chi ha responsabilità della cosa pubblica e poi dalla stampa e dai mezzi di comunicazione la parola è abusata, manipolata, distorta, usata come arma, resa volgare, allora viene destabilizzato il terreno di intesa democratica. Ogni volontà dittatoriale inizia con l’uccisione della parola. Si pone qui un compito urgente per una politica con la p maiuscola, per riprendere le parole di Papa Francesco: ridare dignità alla politica riscoprendo e vivendo un’etica della parola.