La corte di giustizia boccia il ricorso di Polonia e Ungheria sul meccanismo di condizionalità. Si possono bloccare i fondi europei a chi non rispetta lo stato di diritto.

Antonio Villafranca

Dopo oltre sei anni di stallo, la crisi tra istituzioni europee e i governi di Polonia e Ungheria sullo stato di diritto arriva ad una svolta: la Corte di giustizia europea ha respinto il ricorso dei due paesi contro il meccanismo di condizionalità che vincola l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Budapest e Varsavia chiedevano di annullare il regolamento che permette alla Commissione di sospendere i pagamenti a quei paesi membri in cui lo stato di diritto è minacciato. Polonia e Ungheria si erano rivolte alla Corte di giustizia nel marzo del 2021, definendo il meccanismo, in vigore dal 1° gennaio 2021, “un’interferenza illegale” negli affari interni dei singoli stati membri. Ora la Commissione dovrà valutare se e quando attivare il meccanismo che potrebbe privare i due stati membri di parte dei fondi stanziati nell’attuale bilancio pluriennale (2021-2027) e nell’ambito del Next Generation Eu. Finora Bruxelles ha già sospeso l’iter di approvazione del Pnrr di 36 miliardi di euro per la Polonia e di 7,2 miliardi di euro per l’Ungheria. Il rischio per Budapest e Varsavia è quindi di vedere sfumare non solo questi fondi ma almeno una parte di quelli normalmente ricevuti dal bilancio Ue. Per questo, la sentenza potrebbe portare lo scontro ad un livello ancora più alto. Come sintetizza una fonte comunitaria al quotidiano francese Le Monde, il premier polacco Mateusz Morawiecki e quello ungherese Viktor Orban lo hanno detto chiaro e tondo: “Siamo membri del Consiglio e possiamo complicare ogni dibattito”.

Il pronunciamento dei giudici non era inatteso e segue il parere dell’avvocato generale che a dicembre aveva respinto i ricorsi di Varsavia e Budapest, confermando che il sistema di condizionalità è compatibile con i Trattati dell’Ue. La Corte ha ricordato tra l’altro che “il rispetto da parte degli stati membri dei valori comuni sui quali l’Unione si fonda […] definisce l’identità stessa dell’Unione quale ordinamento giuridico comune” e “giustifica la fiducia reciproca tra tali stati” e pertanto “l’Unione deve essere in grado, nei limiti delle sue attribuzioni, di difendere tali valori”. Nella sentenza, i giudici del Lussemburgo sottolineano che “il bilancio dell’Unione è uno dei principali strumenti che consentono di concretizzare, nelle politiche e nelle azioni dell’Unione, il principio fondamentale di solidarietà tra stati membri” e ricordano che il meccanismo di condizionalità mira a proteggere tale bilancio “da pregiudizi derivanti in modo sufficientemente diretto da violazioni dei principi dello stato di diritto”. La sentenza, che non potrà essere oggetto di appello, era molto attesa e costituisce una pietra miliare nell’affondo senza precedenti contro il diritto comunitario portato avanti da due paesi membri.

Non si è fatta attendere la reazione dei diretti interessati: se la ministra della Giustizia ungherese, Judit Varga, ha definito il verdetto “un abuso di potere” da parte di Bruxelles, la Polonia ha parlato di “attacco contro la sovranità”. La disputa tra il governo di Varsavia, guidato dal partito conservatore di destra Diritto e Giustizia (PiS), e Bruxelles riguarda diversi ambiti: la primazia del diritto comunitario su quello nazionale, la libertà di informazione, i diritti delle donne e delle minoranze e la riforma del sistema giudiziario polacco. Quest’ultimo in particolare –osservano esperti di diritto– ha visto ridursi la propria autonomia in seguito ad una serie di nomine ad hoc decise dal governo che hanno progressivamente eroso l’indipendenza dei tribunali e della magistratura. Per questo la sentenza della Corte era particolarmente attesa tra i giudici polacchi che contestano le riforme imposte dal governo. “Dopo anni passati ad evitare lo scontro diretto con la Polonia, l’UE sembra finalmente applicare un po’ di più i propri principi” ha commentato Krystian Markiewicz, magistrato e presidente di Iustitia, un’associazione critica nei confronti del governo. Quanto all’Ungheria, il braccio di ferro con la Commissione riguarda, oltre che l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e di pensiero, i diritti delle minoranze, i conflitti di interesse e la corruzione diffusa nel paese. La sentenza, inoltre, arriva proprio mentre il paese si prepara alle elezioni, il prossimo 3 aprile, e la rielezione a premier di Viktor Orbán potrebbe dipendere anche dallo scontro con Bruxelles. 

 

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