Articolo già apparso sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Marco Bellizi

Gli studenti sudanesi sono scesi di nuovo in piazza ieri a Karthoum. Hanno chiesto giustizia per i loro compagni uccisi nelle dure repressioni dei mesi scorsi, prima che militari e opposizione civile trovassero l’accordo per un’alternanza al governo del Paese in vista di nuove, democratiche elezioni. Dal 19 dicembre scorso sono stati 246 i morti, di cui 127 in un’unica giornata, il 3 giugno, e 1353 i feriti, secondo i dati forniti dai manifestanti. Ieri fortunatamente non si sono verificati scontri ma gli studenti continuano a chiedere in maniera ferma che venga fatta luce su quelle morti mentre ad Addis Abeba, in Etiopia, si tengono colloqui per condurre alla pacificazione anche la parte dell’opposizione che non ha accettato l’accordo con gli apparati militari. Della situazione sudanese abbiamo parlato con l’ambasciatore italiano in Sudan, Fabrizio Lobasso, a margine della conferenza che si tiene a Roma e che riunisce i capi di tutte le missioni diplomatiche italiane nel mondo.

In una situazione ancora confusa come quella sudanese, occorre prima di tutto fare il punto della situazione. In che stato si trova ora il Paese, al di là delle notizie frammentarie che giungono in Occidente?

Il Sudan si trova in una fase cruciale della sua storia: dopo un duro confronto tra opposizioni e militari, finalmente le parti si sono sedute a un tavolo per trovare punti di sintesi, anche grazie al lavoro della diplomazia internazionale: soprattutto Unione africana, Etiopia, Unione europea, Stati Uniti e per certi versi alcune monarchie del Golfo. Ad oggi, è stato raggiunto un accordo di tipo politico: manca ora la firma di un documento costituzionale per regolare l’equilibrio di poteri di un governo transitorio, che per tre anni dovrà essere necessariamente a trazione civile ma con una rilevante componente militare. I negoziati vanno avanti sotto l’egida dell’Unione africana e dell’inviato speciale dell’Etiopia. Il nuovo governo di tecnici dovrà affrontare da subito le grandi emergenze: la pesantissima crisi economica e i focolai di guerra civile che permangono nel Sud del Paese e in Darfur.

A suo parere quante chances di successo ha l’accordo fra militari e civili  per l’alternanza al governo di transizione?

Ci auguriamo tutti che le chances di successo siano ancora molto buone, nonostante la difficoltà odierna dei negoziati. Nessuno dei contendenti desidera protrarre il confronto; l’onda rivoluzionaria non può stravolgere gli assetti del Paese per sempre, così come il compito dei militari non può essere snaturato all’infinito contrapponendosi al volere popolare.  Siamo fiduciosi che le ragioni dell’equità, della giustizia e del buonsenso prevarranno.

Si ha l’impressione che molta parte della crisi sia alimentata da agenti esteri, come spesso accade in Africa. In che misura questo è vero? Quanta parte hanno invece le rivendicazioni che vengono dal basso?

Alcune potenze straniere giocano un ruolo importante nella crisi per i loro interessi politici ed economici. Il Sudan è un Paese strategico per il Corno d’Africa, per l’Africa sub-sahariana e per il mondo islamico, dunque l’influenza di alcuni Paesi del Golfo e la loro confrontazione in Sudan è innegabile. Non dimentichiamo anche il ruolo di due protagonisti dell’area come Egitto ed Etiopia che oggi più che mai sono interessati a un Sudan amico per proteggere i rispettivi interessi vitali. Esistono sicuramente pressioni e ingerenze, ma non insisterei troppo su questa visione geopolitica esogena e pessimistica. Per il Sudan parliamo soprattutto di una situazione in divenire molto endogena: trent’anni di dittatura non potevano che giungere al termine sotto il peso della fortissima crisi economica e delle recriminazioni delle classi sociali e popolari più vulnerabili, che hanno pagato un prezzo troppo alto in tutti questi anni. 

C’è un pericolo di radicalizzazione islamica nel Paese?

Il Paese è immenso, con tutte le difficoltà di controllo geografico e di confine che ne derivano. C’è sicuramente una componente locale di rischio di radicalizzazione, ma direi che è ridotta. Il Paese è pervaso da un tratto di Islam pacifico, inclusivo, che vede nel sufismo e nelle confraternite Sufi un pilastro aggregativo sociale molto forte. Invece direi che  il rischio di una radicalizzazione “importata”, dovuta alla porosità dei confini, così complessi da gestire e monitorare, è più serio.  Il Sudan oggi fa ancora parte della lista statunitense dei “Paesi sponsor del terrorismo”, ma si spera che nel giro di qualche mese possa esserne espunto. Solo così potrà ambire a tutta una serie di aiuti da parte degli organismi finanziari internazionali per risalire la china.

Qual è la posizione italiana, anche in considerazione dell’emergenza migrazioni?

L’Italia ha un peso molto rilevante in Sudan, specie in termini di cooperazione allo sviluppo, ed è un elemento trainante e inclusivo all’interno dell’Unione europea. I Sudanesi ci apprezzano, ci vedono come il “volto dialogante”, “interculturale” dell’Europa. Giochiamo con grande autorità la nostra parte di “stabilizzatore sociale” in molte regioni del Paese, attraverso la cooperazione allo sviluppo, e i tanti progetti di aiuto sul campo.  Sul tema migratorio siamo ovviamente attentissimi: il “Processo di Khartoum” di qualche anno fa  è nato con l’Italia, e gestiamo nel Paese progetti internazionali ed europei di altissimo livello sulla migrazione. Siamo impegnati nella diffusione di politiche non certo di mero contenimento ma piuttosto di creazione di sviluppo sostenibile, di lavoro, di benessere e di giustizia sociale, in Sudan così come negli altri Paesi africani. Occorre creare nelle giovani coscienze sudanesi l’interesse e il desiderio a restare nel proprio Paese, a collaborare per la rinascita della madre patria senza che i nuovi nati debbano cercare, per disperazione, la propria fortuna altrove. 

Reputa sufficiente l’azione delle organizzazioni internazionali? 

L’Italia e le organizzazioni internazionali hanno un ruolo molto importante all’interno del Paese. L’Unione europea porta avanti moltissimi progetti di sviluppo e attraverso rilevanti finanziamenti è vicina al Sudan sotto ogni aspetto della vita sociale, economica ed educativa. Attraverso il contributo di tutti gli Stati membri, Bruxelles si è confermata pivotale anche sotto il profilo politico con l’appoggio convinto al processo di pace portato avanti dall’Unione africana. Le Nazioni Unite altresì sono molto presenti attraverso varie agenzie, per svolgere un importante lavoro di accompagnamento, di creazione di benessere sociale e di consapevolezza popolare sulle possibilità del paese e sulla sua capacità di svilupparsi in modo più convinto. Non dimentichiamo che il Sudan è uno dei Paesi pilota a livello internazionale per l’implementazione del cosiddetto “Nexus“ che, a livello di cooperazione allo sviluppo, indica l’azione virtuosa e congiunta di due componenti della cooperazione e cioè l’ambito umanitario e quello dello sviluppo sostenibile. Trattasi senza dubbio di un’attivismo internazionale forte e sicuramente cruciale per la rinascita del Paese, nel quale l’Italia è assolutamente in prima linea.