Il docufilm sul fondatore di Repubblica è stato realizzato dalle figlie Donata ed Enrica Scalfari (in collaborazione con la Rai) e vuole essere – almeno nelle intenzioni – un’occasione di dialogo e di confronto con un genitore così importante e ingombrante. 

Qualche sera fa la televisione pubblica ha mandato in onda un documentario dal titolo “Scalfari: a sentimental journey”. Non è questa la sede per riflettere sulla moda dell’anglicismo imperante, non solo nei media ma ormai quasi ovunque. Il prodotto è stato realizzato dalle figlie Donata ed Enrica Scalfari (in collaborazione con la Rai) e vuole essere – almeno nelle intenzioni – un’occasione di dialogo e di confronto con un genitore così importante e ingombrante. I luoghi e ancor più le stanze di casa diventano la cornice attraverso cui vengono veicolati, con un ritmo lento e costante, i ricordi personali e professionali. 

Nel film vengono rievocati i tratti fondamentali della biografia (quasi centenaria) di Scalfari: per cominciare, il liceo classico a Sanremo con Italo Calvino come compagno di banco. Dopo l’ipnosi del fascismo, Scalfari resta legato – e lo sarà per tutta la vita – al 14 luglio francese: “Il laicismo di Voltaire e Diderot, il socialismo riformista di Babeuf e le barricate in strada dei Miserabili”. Nel dopoguerra, l’esperienza irripetibile del “Mondo” di Mario Pannunzio, raccontata nel bellissimo libro La sera andavamo in via Veneto (recentemente ristampato da Einaudi). Negli anni ’60 la direzione del settimanale “L’Espresso” e nel decennio successivo l’avventura (umana, politica e giornalistica) del quotidiano La Repubblica. L’utopia – rivendicata dal fondatore nel 1976 – di essere “con la sinistra, oltre la sinistra”. Il successo editoriale (a cui contribuì – come è noto – il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro) che lo porta a essere, nei favolosi anni Ottanta, direttore del primo giornale italiano (con 800 mila copie vendute, sorpassando il “Corriere della Sera”) e, sul finire del decennio, uno degli uomini più ricchi d’Italia (dopo aver venduto le quote del giornale all’Ingegner Carlo De Benedetti). A tale riguardo, la lettura del saggio di Giampaolo Pansa “La Repubblica di Barbapapà” è stata fondamentale nell’apprezzare meglio alcuni passaggi del racconto pubblico che le figlie di Scalfari davano fin troppo per scontati.

La parte forse meno nota del docufilm è quella dell’uomo privato Eugenio, della sua pedagogia martellante (e a tratti umiliante) e della sua ricerca laica sul senso della vita. La sorprendente intesa con Papa Francesco, una conversione “sentimentale” che resta per Scalfari il grande dubbio al centro delle loro conversazioni a Casa Santa Marta. Un’amicizia senile tra due persone che accettano le loro differenze intellettuali, unendosi nella sintonia umana. “Non ti commuove tutto questo?” domanda Enrica al padre, ricevendo come risposta soltanto un orgoglioso “Beh, mi tocca”. A 97 anni compiuti Eugenio scrive ancora i suoi editoriali (più spesso li detta a braccio) sorretto da lampi di memoria accecanti. Anzi lui crea, come precisa alle figlie, con modi degni di Picasso (“Io non cerco, trovo”). 

La memoria delle figlie ha invece conti più prosaici da regolare, qualcosa ancora da capire: “Ti abbiamo vissuto come un padre diviso”. Quando lo cercavano, spesso non lo trovavano. Stava in due famiglie, diviso tra due donne, la moglie Simonetta e Serena, sposata dopo la morte della madre di Enrica e Donata. Alla fine le sorelle si sono arrese: “Abbiamo condiviso questa dualità”. Eugenio, candidamente, ritiene – ancora oggi – di aver fatto la scelta migliore: un accordo. Simonetta e Serena erano a conoscenza l’una dell’altra e lui si impegnava a dare a entrambe “lo stesso affetto e le medesime attenzioni”. Proteggere e ricomporre il “lessico familiare” è stata la sua missione, un fuoco da seguire la cui torcia rimaneva saldamente nelle sue mani. Le figlie rivelano che gli è sempre piaciuto paragonarsi a Noè dentro l’arca, felice del ruolo che gli attribuiva da fuori quella “tempesta necessaria”.

Passano rapidamente in rassegna nel docufilm la prima abitazione sulla Nomentana, il “buen retiro” di Velletri, che ha rappresentato a lungo il rifugio delle vacanze estive. L’ultima casa al Pantheon, dalla quale il quasi centenario Eugenio contempla i tetti di Roma e il bilancio di una lunga esistenza, forse irripetibile.