Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Gabriele Nicolò

Non riuscì a farsene una ragione, Georges Simenon, di non essere stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Era convinto, infatti, di meritarlo. Non solo per il suo talento e per la sua tracimante prolificità (scriveva di media ottanta pagine al giorno tra romanzi, racconti, lettere e articoli giornalistici sotto lo pseudonimo di Georges Sim), ma anche per gli «strenui sacrifici» — come egli stesso usava dire — sostenuti per raggiungere uno stile perfetto. Sacrifici ancor più rimarchevoli perché fatti in un’epoca in cui, al contrario, gli scrittori tendevano a privilegiare un linguaggio poco disciplinato e poco sorvegliato. A trent’anni dalla morte (avvenuta il 4 settembre 1989) è ancora vibrante l’afflato di quel suo infaticabile labor limae, diretto a forgiare, nel segno di una rigorosa metodicità, la frase che doveva ispirarsi a una semplicità spartana e a un’essenzialità spoglia ma mai banale. Ecco allora che il suo certosino lavoro di revisione, sollecitato dall’illuminante intuizione del suo primo editore, si concentrò sulla graduale quanto inesorabile eliminazione degli aggettivi, rei — se usati con smodata prodigalità — di contaminare e ostruire la fluidità di espressione.

Quando il creatore dell’immarcescibile commissario Maigret (che poi sarebbe stato interpretato sullo schermo dal magistrale Gino Cervi) portò le sue prime opere all’editore, questi, con profetica chiaroveggenza, capì che chi gli aveva sottoposto quei fogli sarebbe diventato un grande scrittore. Ma alcune cose andavano cambiate, e subito. Altrimenti a quel giovane occhialuto non avrebbe mai arriso la fama. Quindi lo convocò e quando l’aspirante scrittore si presentò e gli fu davanti, l’editore — sventolando i fogli — gli disse con severo cipiglio: «Simenon, quando dalle sue pagine toglierà gli aggettivi, diventerà Simenon». E così fu. Per poi confessare, in tarda età — richiamando quella lezione — che quando leggeva i testi di altri scrittori, lo faceva sempre con la sua inseparabile matita, usata per cancellare «tutti quegli aggettivi che indeboliscono la frase invece che rafforzarla».

Simenon cominciò a scrivere a sedici anni firmando articoli di cronaca nera per la gazzetta della città natale, Liegi. Venne subito apprezzato, ma il salto di qualità lo fece trasferendosi a Parigi. Nella capitale francese avrebbe conseguito infatti quella maturità letteraria alla quale si sarebbe accompagnata l’acquisizione di una cifra narrativa ben definita, la quale si identifica nella realizzazione di un giallo che non si esaurisce nell’individuazione del colpevole, ma che assurge ad analisi paziente e approfondita dell’animo umano. «Più indago le brutture dei bassifondi di Parigi, più penetro nei recessi del cuore umano» soleva dire, pipa in bocca, Simenon.

Suo grande ammiratore, Alberto Savinio lo definì «un Dostoevskij mancato». Solo in apparenza una critica. In sostanza, un elogio che mostrava di comprendere perfettamente l’arte di Simenon, capace di mettere a nudo le debolezze dei suoi personaggi, di costruirne i sogni per poi smontarli, di raccontarne le ambizioni per poi mortificarle: il tutto descritto in un’atmosfera pervasa di malinconia, di dolore represso, di struggente nostalgia. La grandezza delle opere di Simenon sta in una sorta di ossimoro: più sembrano scritte con il freno a mano tirato, più risultano scorrere veloci. La lentezza della corrosiva indagine psicologica dei soggetti è in realtà il viatico per una struttura narrativa che — coniugando in felice sintesi indagine poliziesca e indagine introspettiva — spicca per complessità e dinamicità. E il paragone con lo scrittore russo non è certo azzardato: in Simenon, infatti, la capacità di descrivere, con poche e sapienti pennellate, le profondità abissali dei sentimenti, le sfumature delle emozioni e i capricci portati all’eccesso, raggiunge vette eccelse. Romanzi come Una testa in gioco. Il pazzo di Bergerac, La casa dei fiamminghi, sono esemplari testimonianze di tale capacità.

Si dice che ogni volta che finiva di scrivere una storia, Simenon si sentiva stremato. Aveva dovuto infatti sottostare all’incalzante e perentoria richiesta dei personaggi, da lui ideati, di avere, il prima possibile, vita piena sulla pagina. Scenario, questo, che non può non richiamare il processo creativo di Luigi Pirandello, anch’egli assediato, per lo stesso motivo, dai “suoi personaggi in cerca d’autore”. E a proposito di Pirandello, Andrea Camilleri usava fare una pregnante distinzione tra i due. Per lo scrittore siciliano «la vita o la si scrive o la si vive»; Simenon, diceva Camilleri, «la vita l’ha vissuta scrivendola e l’ha scritta vivendola».