La cronaca ci riferisce con crescente frequenza di episodi di violenza agìta da giovani e giovanissimi con l’uso di armi. Emblematico il caso scioccante del ragazzo romano giustiziato da due coetanei con un colpo di pistola alla nuca, mentre cercava di proteggere la sua fidanzata e difendersi da un tentativo di furto.
Ci sono troppe armi che girano con facilità tra gli adulti ma il fenomeno si va diffondendo anche tra gli adolescenti e sovente tra i minori.
Inoltre il connubio armi-droga è tanto devastante quanto pervasivo, c’è un nesso di causa effetto sull’azione violenta ma anche un rapporto di interesse economico che unisce i due fenomeni.

Quali strategie sono necessarie per arrestare questo coinvolgimento?
Dalla più grande democrazia occidentale ai Paesi delle guerre la risposta è una sola: investire nella scuola, nell’istruzione, nell’educazione. Insegnare l’amore per gli altri esseri umani, per gli animali, per il creato. Perseguire le vie della pace, della tolleranza, della legalità. Questo implica una radicale e profonda riflessione sulle spese destinate alla crescita e modernizzazione dei sistemi scolastici, agli investimenti sulla ricerca educativa, alle risorse umane e alle dotazioni organiche e strumentali di cui fornire gli istituti scolastici. Sono ben note le resistenze ad una decrescita degli investimenti bellici e militari, sia da parte delle forze politiche che nella stessa opinione pubblica, suggestionata dai pericoli derivanti dai rischi dei fondamentalismi, dell’odio razziale, della carenza di tutele in materia di sicurezza pubblica.

E le giustificazioni –motivazioni di ordine tecnico non sempre risultano esplicative e convincenti, specie in una fase di crisi recessiva globale e di depressione sociale: basti pensare alla ben nota vicenda degli aerei F35 e ai costi derivanti dal loro acquisto e manutenzione mentre una percentuale elevata di edifici scolastici non garantisce requisiti di sicurezza e standard di agibilità-abitabilità rassicuranti.

L’esponenziale crescita del numero di armi a disposizione dei giovani del nostro Paese è alimentata da interessi commerciali, da consuetudini importate da altri Paesi (si pensi che negli USA esistono aziende che fabbricano armi chiamate “il mio primo fucile”, regalate di norma ai minori al 10° compleanno) ma ci sono tuttavia altri indicatori che confermano una deriva di sovraesposizione verso il pericolo di comportamenti individuali ma orientanti anche nel gruppo, indirizzati alla violenza o da essa condizionati.
Pistole giocattolo, giochi militari, abbigliamenti bellici, oggetti di uso offensivo costituiscono materia per regali e aspirazioni prevalenti, fin dalla più tenera età.

L’influenza dei programmi televisivi improntati alla violenza come prassi abituale e trama di comportamenti ricorrenti è pressante, pervasiva, pedagogicamente negativa: l’utenza di questi programmi – dai cartoni animati ai talk-show ai film d’azione, di guerra, di narrazione di profili criminali spazia per età e genere, dai bambini e le bambine della scuola dell’infanzia agli adolescenti delle scuole secondarie di secondo grado.
L’introduzione delle fasce protette non è deterrente sufficientemente dissuasivo poiché il leit-motiv è sempre quello della violenza come prevalente modello antropologico-comportamentale: un modello idealizzato e reso vincente, nella ostentazione della forza come strumento di emergenza sociale, di successo tra i pari, di perseguimento del ‘lieto fine’.

Si fa e si ottiene giustizia solo attraverso l’uso della forza, mentre vengono ridicolizzate e valutate pregiudizialmente perdenti tutte le altre strade che passano dalle relazioni pacifiche e positive, dall’interlocuzione, dal dialogo.
Purtroppo a cominciare dalla famiglia quando non è luogo di affetti ma di conflitti.
Una cultura mass-mediologica negativa che genera solitudini siderali anche tra le giovani generazioni.

Non è difficile immaginare l’influenza degli interessi commerciali e industriali che sottende e ispira questi filoni e queste trame narrative, dove il prossimo è sempre antagonista, nemico da battere, fino alla sua eliminazione fisica, con una reiterazione ed una disinvoltura veramente raccapriccianti.
Per non parlare delle insidie del web e di tutta quella cultura virtuale, libera e disinvolta (nei temi e nei linguaggi) che vi circola o dell’esplosione delle slot-machines, che coinvolge i minori con una crescita esponenziale e drammatica generando fenomeni di ‘ludopatia’ che altro non sono che il correlato speculare e la declinazione comportamentale di massicci investimenti nel gioco d’azzardo, tra tutti il peggiore maestro di vita poiché distrugge ogni scala di valori a fronte dell’illusione del facile guadagno, del successo e della ricchezza a portata di mano. Ludopatia da non intendersi come nativa predisposizione genetica bensì come conseguenza patologica provocata da forti sollecitazioni esterne, non causa ma effetto. Occorre una forte reazione da parte delle autorità e delle istituzioni che produca normative restrittive e dissuasive di queste attrazioni da paese dei balocchi, dove i minori risultano perdenti in partenza, schiavizzati al gioco come fonte di possibile, facile arricchimento e riscatto sociale.

Non c’è più tempo da perdere: occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, bisogna che qualcuno abbia il coraggio di spezzare queste spirali perverse, ricominciando a parlare di senso del dovere, di identità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita e formazione individuale.
Un compito che non ci è estraneo perché anche noi, in Italia e in Europa, vediamo attecchire ed alimentarsi fenomeni di violenza dei minori e sui minori, da molteplici profili di considerazione.

Segno eloquente e pernicioso del prevalere degli interessi commerciali su quelli dell’etica dei comportamenti individuali e sociali.
Per contrastare la violenza dei bambini bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività: dobbiamo consapevolmente riflettere sul fatto che questo principio vale anche per l’Italia, pur in un contesto sociale caratterizzato da consuetudini e modelli di vita diversi. Come sappiamo dall’esperienza giudiziaria dei casi, gran parte dei bambini che esplicitano comportamenti aggressivi hanno genitori che sono violenti con loro oppure assistono direttamente alle violenze in famiglia ove non ricevano addirittura agli stessi genitori l’insegnamento esplicito della violenza (“se ti picchia, picchialo”… “fai valere le tue ragioni”… “dimostrati uomo”).
Questo è un compito che deve passare attraverso la scuola come principale “agenzia” di educazione alla pace, a cominciare dai rapporti ‘con’ e ‘tra’ gli alunni e dalle relazioni con le famiglie.

Una scuola che sappia risolutamente indicare modelli educativi che portano al bene comune, al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla legalità dovrebbe impostare – accanto al compito della trasmissione dei saperi e alla sollecitazione verso la cultura come fattore generativo di crescita intellettiva, cognitiva e comportamentale – una solida educazione sentimentale. E’ necessario far leva sul controllo e sul corretto indirizzo dell’emotività, sull’uso del pensiero critico, sull’abitudine alla riflessione come premessa di ogni azione o comportamento, specie in ambito relazionale. Occorre per questo una stretta collaborazione e una solidale condivisione d’intenti tra famiglia e scuola. I “buoni sentimenti” infatti sono le chiavi che usiamo perché i valori abbiano accesso nella nostra mente e dimorino nel nostro animo, per darci una identità rispettosa dell’identità altrui.

Istruzione e poi ancora istruzione, educazione, scuola pubblica come investimento dello Stato a favore delle giovani generazioni, garanzia del diritto allo studio, uguaglianza delle opportunità di partenza e compensazione delle difficoltà in itinere, percorsi formativi individualizzati per favorire la massimizzazione delle potenzialità di ciascuno, affinchè vengano rimosse le cause di rischio educativo e di disagio scolastico. Questo implica investimenti sempre più elevati per adeguare i sistemi scolastici agli standard di competitività spesso imposti da agenzie formative esterne, per rendere sicuri gli edifici scolastici e aggiornati e motivati gli insegnanti. Crescere in cultura per un Paese significa sviluppare la potenzialità insite in ciascun individuo, non lasciare che nessuno si perda per strada o ne imbocchi una sbagliata, mettere la persona al centro dei propri interessi, emancipare i valori del confronto, della condivisione e della solidarietà. Queste sono le armi pacifiche con cui combattere e auspicabilmente sconfiggere i mali dell’emarginazione, della solitudine, della povertà materiale e spirituale, delle violenza che affliggono i bambini e i ragazzi del nostro tempo.