Un barcone affondato, un sogno steccato.

Il naufragio sulle coste calabresi scuote le nostre coscienze avvezze ormai a tutto. Il mare è abile a cancellare le sue tracce sui corpi che ha attraversato. Fa lindo anche il dolore e porta via al più presto, nella risacca, la nostra iniziale costernazione.

Giovanni Federico

Se si parla di predestinazione, d’istinto si pensa sempre a qualcosa di buono, a futuri radiosi ed a successi certi per chi ha già dato un primo saggio di capacità e di talento. Non riguarda solo le persone; anche alcuni posti possono godere di predestinazione od esserne vittime. Pochi giorni fa è affondato l’ennesimo barcone con un numero di vittime “spropositato” persino per le nostre coscienze avvezze ormai a tutto. Non che possa esserci la previsione di un numero invece conveniente e accettabile. Neppure è da ipotizzare l’idea che possa esserci un proposito in tal senso; del resto, nella nostra avveduta lingua non esiste la parola “propositato”.

La tragedia è avvenuta in località Steccato di Cutro dalle parti di Crotone. Non poteva essere che lì, dove c’è un baluardo eretto dalla forza degli elementi contro le ambizioni di migranti in cerca di fortuna. Il viaggio della speranza si è concluso con un naufragio. Non si sarà pagata la stecca al fato per far andare bene le cose od i sogni dei migranti sono andati troppo in alto di tono, steccando sulle note più audaci e impegnative di un futuro migliore. Il barcone si è rotto in mille pezzi, incrociando le sue stecche di legno in completo disordine sul mare agitato. Dopo un po’, si sa, le onde si stancano di giocare con i morti e li restituiscono a riva per le questioni di competenza.  Incapaci di scandalizzarci ancora, timbra in prima linea il disordine delle polemiche che non smettono mai di alimentarsi, incrociando lingue contro lingue, in un intreccio che ne fa sparire il capo e la coda. Resta solo un gran frastuono, che s’accorda con il moto ondoso solo quando è in tempesta e fa disastri.

C’è un qualcosa di beffardo in questa strage di uomini, donne e bambini. Sembra che si fosse ad un passo da terra, un centinaio di metri dalla riva. Proprio quando sembrava probabile la salvezza, il fasciame di legno, forse per l’emozione, si è sbracato. Forse è stato il batticuore dei suoi occupanti che hanno mandato in pressione eccessiva quella specie di battello. L’imbarcazione con i suoi passeggeri si è rovesciata, ribaltando d’un balzo l’esito di una partita che sembrava ormai vinta. Fatto sta che quella sporca ultima meta non è stata raggiunta. All’alba, ai primi visibili soccorsi, uno stuolo di lenzuola bianche a coprire le vittime rigurgitate dal mare che non vuole tenerseli sullo stomaco. Anche la grande acqua non sa che farne e dove riporre il popolo degli emigranti. I desideri di una vita nuova sono andati in bianco. A ridosso dell’estate si mette usualmente in moto l’operazione “Mare pulito”. Questa volta siamo in anticipo sui tempi ed i cavalloni hanno pensato loro a dare a Cesare quel che è di Cesare. Di cadaveri non vogliono saperne.

Una distesa di teli bianchi, non di lino, ma non fa nulla, ha preso possesso della spiaggia. Un accampamento di chiazze bianche a picchettare la sabbia imbrattata da indumenti umani, biberon, giocattoli rotti che forse non appartengono tutti a questa sciagura, ma che si prendono comunque per mano, come solo i rottami, complici di mille storie, sanno fare. Forse si è sbagliato verso. Per ricordare le stragi di mafia e prima ancora in occasione della Settimana Santa si usa stendere lenzuola bianche fuori dai balconi a ricordo della sacra Sindone o per dire che c’è una società senza macchie che è contro ogni forma di violenza.

Sulle dune di Steccato non ci sono balconi e quindi le si è sparse lungo la sabbia. Poi le precisazioni di cronisti schiavi di uno stucchevole afflato, che non conosce alternative al gusto di dettagli inutili. Accade quando non si ha altro da dire e c’è un lavoro comunque da fare. Non sono lenzuola ma sacchi in cui riporre i corpi senza vita. Una modesta soddisfazione: il solo modo di mettere nel sacco il destino avverso, che ha saccheggiato dei poveretti rubandone la vita.

Quindi, tutti quanti, appena possibile, messi in una bara con una sigla numerica a distinguo, nel solito Palazzetto dello Sport del paese più vicino. Sembra che per andare in Paradiso od avere una tomba, che possa dirsi propria, si debba in qualche modo competere fino all’ultimo. Il traguardo era annegare e ce l’hanno fatta. Si dice morte bianca quella in cui non c’è segno di sangue o dove è trasparente e invisibile la mano responsabile del fatto. Il mare è abile a cancellare le sue tracce sui corpi che ha attraversato. Fa lindo anche il dolore e porta via al più presto, nella risacca, la nostra inziale costernazione. A breve anche su questa sciagura, come sempre, inevitabilmente, si stenderà un lenzuolo. Cadrà nel sonno di ciò che è ormai è stato. Mar Ionio fa rima con matrimonio. Stavolta, con la morte.