Un rivolgimento morale contro le armi nucleari

C’è un prima e un dopo Hiroshima e Nagasaki nella storia dell’umanità.

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Alessandro Gisotti

C’è un prima e un dopo Hiroshima e Nagasaki nella storia dell’umanità. C’è anche un prima e un dopo il devastante bombardamento atomico sulle città giapponesi nel modo in cui la Chiesa, innanzitutto attraverso il magistero dei Pontefici, guarda alla tragica esperienza della guerra. La devastazione annichilente portata dagli ordigni nucleari obbliga anche la Chiesa a riconsiderare il tema del conflitto bellico con una nuova mentalità. Mai nella storia, infatti, gli uomini avevano avuto a disposizione un’arma capace di cancellare potenzialmente ogni traccia umana sulla faccia della terra. Una tale situazione inedita pesa in modo angoscioso sul cuore di Pio XII che — nel radiomessaggio del 24 agosto del 1939 — aveva ammonito profeticamente: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Nell’agosto di sei anni dopo, al termine di un conflitto che ha sconvolto il pianeta, quelle parole di Papa Pacelli assumono un nuovo tragico significato. Davvero, come dimostra quanto accaduto con il bombardamento nucleare statunitense su Hiroshima e Nagasaki, «tutto può essere perduto con la guerra».

Passano tre anni e, mentre il mondo già nuovamente si va dividendo in due blocchi l’uno contro l’altro armati, Pio XII confida che un pensiero «costantemente grava sull’animo nostro, come su quello di quanti hanno un vero senso di umanità». È l’8 febbraio del 1948, quando il Papa riceve i membri della Pontificia accademia delle scienze. A loro e idealmente agli scienziati di tutto il mondo rivolge un interrogativo che non ci ha più abbandonato dopo quella mattina del 6 agosto del 1945: «Quali sciagure l’umanità dovrebbe attendere da un futuro conflitto, qualora avesse a dimostrarsi impossibile di arrestare o frenare l’impiego delle sempre nuove e sempre più sorprendenti invenzioni scientifiche?».
L’ombra delle sciagure evocate da Pio XII sembra cupamente profilarsi nell’ottobre del 1962 quando, durante la crisi missilistica di Cuba, Mosca e Washington sembrano a un passo dall’utilizzo della bomba atomica. Saranno necessari tredici lunghissimi giorni, che lasciano l’umanità con il fiato sospeso, per trovare una soluzione negoziale. Il presidente americano Kennedy e l’omologo russo Krusciov si fermano un passo prima dell’abisso. Se lo fanno è anche grazie a Giovanni XXIII che usa ogni mezzo a sua disposizione, dalla preghiera alla diplomazia, per aprire nuovi spazi di dialogo. Il futuro santo ricorre alla Radio Vaticana per far sì che la sua parola di pace arrivi il più lontano possibile, che venga ascoltata alla Casa Bianca e al Cremlino. Nel radiomessaggio del 25 ottobre esorta i responsabili delle nazioni a evitare «gli orrori della guerra» per il mondo. Un conflitto di cui, proprio a causa degli ordigni nucleari, «nessuno può prevedere le terribili conseguenze».

L’impressione causata da quella crisi avrà un forte impatto su Papa Roncalli, che matura la convinzione della necessità di approfondire e sviluppare la dottrina cattolica sul tema della guerra e della pace. Nell’aprile del 1963, Giovanni XXIII pubblicherà dunque la Pacem in terris. Un’enciclica che non è rivolta solo ai credenti ma, come si legge nel frontespizio del testo, anche «a tutti gli uomini di buona volontà». La forza del documento è proprio nella capacità di argomentazione che anche un non credente può riconoscere e accogliere. Nell’era atomica, osserva Giovanni XXIII, è alienum a ratione, «estraneo alla ragione» pensare che la guerra possa essere utilizzata «come strumento di giustizia». E proprio per questo motivo, l’arresto della corsa agli armamenti e il «disarmo integrale» sono invece un obiettivo «reclamato dalla retta ragione».

Paolo VI raccoglie il testimone del suo predecessore. Guida e conclude il concilio Vaticano II e fa suo l’impegno perché mai più l’umanità debba subire lo scempio di Hiroshima e Nagasaki. Proprio in uno dei documenti fondamentali dell’assise conciliare, la Gaudium et spes, si prende atto che le azioni militari condotte con armi nucleari superano «i limiti di una legittima difesa». Anzi, ancora una volta facendo ricorso alla ragione, si annota che se venissero utilizzati pienamente gli arsenali atomici in possesso delle grandi potenze, «si avrebbe la pressoché totale distruzione delle parti contendenti». Di qui, il monito del Papa e dei padri conciliari che definiscono «delitto contro Dio e contro la stessa umanità» ogni guerra che «mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti».

Vibrante l’appello che Papa Montini leverà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel suo storico discorso il 4 ottobre del 1965. «Se volete essere fratelli — afferma il futuro santo — lasciate cadere le armi dalle vostre mani (…) Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi». E, come aveva già fatto in occasione del suo viaggio apostolico in India l’anno prima, chiede ai leader del mondo riuniti al Palazzo di Vetro di «devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie, che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti».

Non solo appelli, però. Come Giovanni XXIII, anche Paolo VI pone la diplomazia vaticana al servizio della causa della pace e del disarmo nucleare. Particolarmente significativo il ruolo, in questo ambito, di Agostino Casaroli che nel 1971 vola a Mosca per depositare il documento di adesione della Santa Sede al Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari. Il futuro cardinale segretario di Stato interverrà, inoltre, all’Assemblea speciale dell’Onu sul disarmo, nel 1978, leggendo il messaggio inviato da Paolo VI. «La questione della guerra e della pace — ribadisce Montini — si pone oggi in termini nuovi», perché per la prima volta gli uomini hanno a disposizione «un potenziale ampiamente capace di annientare ogni vita sul pianeta». Per questo, il disarmo diventa un imperativo morale.
Come i suoi predecessori, anche Giovanni Paolo II si rivolge con particolare predilezione agli scienziati, ricordando loro il primato dello spirito sulla materia, il valore del progresso tecnologico che è veramente tale se è a favore dell’uomo, non contro di esso. Così, nel discorso pronunciato nella sede dell’Unesco a Parigi, il 2 giugno del 1980, Karol Wojtyła leva un appassionato appello invitando gli scienziati a mostrarsi più potenti dei potenti della Terra. «Uomini di scienza — è la sua esortazione — impegnate tutta la vostra autorità morale per salvare l’umanità dalla distruzione nucleare». L’anno dopo, il Papa “venuto da lontano” si reca in Estremo Oriente e il 25 febbraio 1981 visita il Peace Memorial di Hiroshima.

Qui, in un luogo che come Auschwitz è un imperituro ammonimento per l’umanità, rivolge un memorabile discorso in cui sottolinea che se ricordare il passato è «impegnarsi per il futuro», «ricordare Hiroshima è aborrire la guerra nucleare».
Sempre a Hiroshima — dopo la visita al Memoriale e l’incontro con gli hibakusha, i sopravvissuti all’attacco atomico — Papa Wojtyła si rivolge ancora una volta agli scienziati e mette l’accento sulla questione morale che pone l’esistenza stessa di armamenti capaci di distruggere l’umanità. Parla di «crisi morale» dopo i bombardamenti atomici. Denuncia con forza la corsa agli armamenti chiedendosi se sia «morale che la famiglia umana continui ancora in questa direzione». Il Papa lancia quindi «una grande sfida» alle menti più brillanti e ai leader del mondo. Sfida che, nelle sue parole, «consiste nell’armonizzare i valori della scienza e i valori della coscienza». «Il nostro futuro su questo pianeta, esposto com’è al rischio dell’annientamento nucleare — ammonisce Giovanni Paolo II — dipende da un solo fattore: l’umanità deve attuare un rivolgimento morale». Nel corso del suo lungo pontificato, Papa Wojtyła tornerà più volte a denunciare l’orrore e l’insensatezza di una guerra condotta con armi di distruzione di massa. Incoraggerà senza sosta gli sforzi per il disarmo, svolgendo un ruolo storicamente riconosciuto per la fine della “Guerra fredda” e dell’“equilibrio del terrore” basato proprio sulla deterrenza nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Anche Benedetto XVI non manca di ricordare la ferita profonda inferta all’umanità intera con i bombardamenti atomici. Sostiene l’impegno delle Nazioni Unite per un progressivo disarmo e la creazione di zone libere dalle armi nucleari. Particolarmente significativo è quanto scrive nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2006 laddove definisce «funesta» e «fallace» la prospettiva abbracciata da quei governi che «contano sulle armi nucleari per garantire la sicurezza dei loro Paesi». «In una guerra nucleare, infatti — osserva Joseph Ratzinger — non vi sarebbero vincitori ma solo vittime». Quattro anni dopo, nel 65° del bombardamento atomico, Benedetto XVI riceve il nuovo ambasciatore giapponese presso la Santa Sede, Hidekazu Yamaguchi. «Questa tragedia — afferma — ci ricorda con insistenza quanto sia necessario perseverare negli sforzi a favore della non-proliferazione delle armi nucleari e del disarmo».

Sforzi che vengono ripresi e intensificati da Papa Francesco per evitare quello che definisce «un suicidio» dell’umanità. Il Pontefice non lesina energie e, nel solco tracciato dai suoi predecessori, si fa anche promotore di iniziative concrete. È il caso del convegno in Vaticano, nel novembre 2017, che mette allo stesso tavolo esponenti politici, premi Nobel e scienziati per cercare nuove vie per liberare il mondo dalle armi nucleari. Un evento particolarmente rilevante anche per il momento in cui avviene: l’escalation di tensione tra due potenze atomiche, gli Stati Uniti e la Corea del Nord. «Le armi nucleari — dichiara all’apertura della conferenza — non sono solamente immorali ma devono anche considerarsi un illegittimo strumento di guerra».

Nel corso del pontificato, Jorge Mario Bergoglio approfondisce la riflessione sull’argomento, arrivando alla convinzione — espressa in più occasioni e da ultimo nel videomessaggio per il popolo giapponese alla vigilia del viaggio apostolico — che l’uso delle armi nucleari sia immorale. Già un mese dopo il convegno in Vaticano sul disarmo riaffronta la questione, nella conferenza stampa in aereo di ritorno dal viaggio in Bangladesh, e afferma che «siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari». Questo, sottolinea, perché oggi, «con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità». Con parole che sembrano riecheggiare quelle di Wojtyła a Hiroshima, Francesco si chiede dunque se sia «lecito mantenere gli arsenali nucleari, così come stanno» o non sia piuttosto «necessario andare indietro».

L’immagine più evocativa di questo impegno di Papa Francesco per il disarmo, in attesa della visita ai Memoriali della Pace di Hiroshima e Nagasaki, è senza dubbio legata alla foto del bambino con sulle spalle il fratellino morto nel bombardamento nucleare. Una istantanea che tocca profondamente il Santo Padre che la fa riprodurre in un cartoncino e distribuire ai giornalisti che lo accompagnano nel viaggio verso il Cile, nel gennaio dell’anno scorso. «Un’immagine del genere — confida — commuove più di mille parole». Un’immagine che, più di mille parole, interroga le coscienze e rappresenta un monito imperativo affinché l’umanità non debba sperimentare mai più la devastazione di un attacco atomico.