Una generazione da risarcire

Che cosa accomuna la crisi della nostra epoca a quelle, cicliche e periodiche, del passato?

Se mai esistesse sulla faccia della terra un tribunale competente ad accoglierla, credo che la “class action del secolo”  sarebbe promossa dalla generazione dei giovani del nostro tempo.

Naturalmente toccherebbe a noi adulti e alla società che abbiamo via via codificato, pur con tutte le attenuanti del caso,  di salire sul banco degli imputati.

E insieme a noi – come dice una canzone – “ tutte le promesse, tutte le speranze per un mondo  migliore”: i luoghi comuni della crescita illimitata, i retaggi ideologici, il relativismo etico, la teoria della vita piena che tutto possiede, consuma e brucia nei ritmi incalzanti, vertiginosi, scanditi dalla tirannia del tempo breve.

Che cosa accomuna la crisi della nostra epoca a quelle, cicliche e periodiche, del passato?

La teoria del “tutto illimitato”, il desiderio di migliori condizioni di vita legate all’espansione economica, la ricerca esasperata del progresso e del nuovo ad ogni costo.

Che cosa distingue, invece, questa crisi da quelle apprese dalla storia?

La teoria – altrettanto implicita e scontata – del “tutto subito”, una diversa percezione del tempo utile e di quello necessario, l’egoismo individualista tipico del capitalismo più deteriore, la corsa ad accaparrare e possedere tutto il possibile per l’immediato presente, una scarsa percezione di una qualunque idea logica intorno ad un futuro sostenibile.

Immaginando di edificare “il migliore dei mondi possibili” – come lo chiamerebbe Voltaire – non ci siamo accorti che la nostra ingombrante presenza (per avere tutto, fare tutto, ottenere tutto) sottraeva a poco a poco spazi vitali alle giovani generazioni.

Certo, ai nostri figli abbiamo sempre pensato ma con una sorta di ragionamento cumulativo: garantire loro il benessere più elevato, la più estesa dotazione di beni materiali, i prodotti più sofisticati dell’evoluzione tecnologica.

Ma sottraendo loro gli spazi vitali per una crescita fisiologica, i tempi necessari per la formazione della loro identità, una concezione moderata e modulata della vita, dove ogni conquista non è preceduta o accompagnata da rinunce e sacrifici, dove il verbo “accontentarsi” non si declina più al tempo presente, dove diritti e doveri non sempre marciano di pari passo.

Succede allora che – volendoli crescere in fretta e rendendoli adulti precocemente –  è come se avessimo vissuto al posto loro la parte iniziale e propedeutica della loro stessa vita, pensando di riuscire ad ‘incasellarli’ al posto giusto nel momento giusto.

Ma in questa società del progresso tout-court, che abbatte ogni barriera e supera ogni difficoltà ormai non c’è più posto neanche per noi.

Il ciclico avvicendamento generazionale non trova spazi, il momento di entrare in scena tarda, rallenta a dismisura in rapporto alle mutate condizioni oggettive del contesto.

La pandemia da Coronavirus che sta mietendo vittime e sconquassa il mondo, diventa un ulteriore discrimine tra il prima e il dopo, subentra strisciante il problema della sostenibilità generazionale..

Se c’è una condizione antropologica deprivata di certezze e sostenuta da speranze effimere questa è proprio il futuro: i condizionamenti del virus non riguardano solo la salute o l’economia ma i destini stessi di un’umanità impreparata.

Il contagio ci ha penetrato nel profondo, oltre il dato patologico, la mutazione genetica comporta alterazioni imprevedibili.

Quando con il coraggio della consapevolezza del problema e l’umiltà di ammettere di non possedere soluzioni precostituite, il Presidente Draghi ha posto la questione della centralità dei giovani rispetto a istruzione, formazione, lavoro, qualità della vita, ha toccato un nervo scoperto la cui cura è stata finora sempre rimandata.

Riapriranno le scuole? La società si chiuderà nel controllo dell’esistente e nel tamponare l’intrusione del male o vivremo una stagione di ripresa e di crescita che possa garantire modelli esistenziali e sociali sostenibili?

 

Già prima del Covid, al termine della scuola, dopo l’università, dopo i master, dopo lunghi  tirocini di apprendistato veniva meno una fisiologica e organica capacità ricettiva da parte di un mercato del lavoro caratterizzato da regole sempre meno garantiste, da una accentuata precarizzazione sui modi e sui tempi, da una forte contrazione della durata contrattuale, dalla concorrenza sleale di una manodopera assoggettata ai ricatti della delocalizzazione e dell’economia globalizzata.

Se prima del Covid 19 la disoccupazione giovanile in Italia aveva raggiunto e superato il 40% si profila ora una situazione più estesa e drammatica, che sta investendo le giovani generazioni delle economie mondiali e che rischia di collocarle ai margini della vita sociale e produttiva, in una condizione di incertezza sistemica quasi a caratterizzare un’epoca indefinita e non calcolabile di dolorosa transizione, mutilata di vibranti potenzialità inespresse.