Articolo pubblicato dall’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

L’Africa rappresenta il fanalino di coda della ricerca scientifica mondiale. Eppure forse mai come oggi, in pieno tempo di coronavirus, sarebbe auspicabile promuovere una sana riflessione su questo tema. A pensarla così sono due personaggi di spicco dell’African Academy of Sciences (Aas), organizzazione panafricana indipendente, senza scopo di lucro, con sede a Nairobi (Kenya), vero e proprio think tank africano con lo scopo di plasmare le strategie e le politiche di scienza, tecnologia e innovazione nel continente, implementando programmi specifici.

In un articolo, apparso recentemente sulla piattaforma online di «ACS Publications» (https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acsomega.0c04327), firmato dalla professoressa Elizabeth Marincola — responsabile di Aas Open Research, la piattaforma editoriale dell’accademia africana — e dal professor Thomas Kariuki — direttore dei programmi dell’altra piattaforma dell’Aas, la Alliance for Accelerating Excellence in Science in Africa’s (Aesa) — i due studiosi hanno argomentato la loro tesi a favore di una promozione della ricerca in Africa, declinandola in vari modi.

Anzitutto, hanno evidenziato che l’Africa ha la «popolazione più giovane del pianeta» (oltre il 60% degli abitanti è sotto la soglia dei 25 anni) e registra il più alto tasso di crescita demografica al mondo. Ciò rende gli «investimenti intellettuali» un imperativo per valorizzare i talenti disseminati nei vari Paesi africani.

Inoltre, il genoma delle popolazioni afro è il più antico e diversificato del mondo e la moderna ricerca genetica è potenzialmente in grado di determinare ciò che rende l’Africa più suscettibile o resistente a determinate malattie. I risultati delle ricerche, secondo i due studiosi, possono influenzare gli esiti delle malattie e la risposta al trattamento in Africa e nel resto del mondo. In aggiunta, il continente africano sopporta circa il 25 per cento del «carico globale di malattie», parametro con cui l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) monitora lo stato di salute dei popoli nel mondo. E se da una parte ci si è resi conto che è possibile contrastare le malattie trasmissibili attraverso campagne di vaccinazioni e investendo sulla prevenzione; dall’altra si assiste ad un rapido aumento dell’incidenza delle patologie non trasmissibili che per lungo tempo hanno imperversato in Europa. Ad esempio, le malattie vascolari, il cancro e il diabete nei paesi africani sono spesso causati dagli stessi eccessi tipici delle società avanzate: obesità, fumo e mancanza di esercizio. Dei 20 Paesi con i maggiori tassi di mortalità materna nel mondo, 19 si trovano in Africa; questo continente detiene anche il triste primato mondiale di mortalità neonatale. Investendo nella scienza africana per affrontare le malattie che affliggono l’Africa, si investe nella prevenzione e nel trattamento delle stesse malattie ovunque nel mondo.

Detto questo, è bene rammentare che la ricerca scientifica costituisce un incentivo per l’economia di qualsivoglia paese. Attualmente, secondo l’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), la produzione scientifica del continente africano rappresenta meno del 2,6 per cento della quota mondiale. Eppure, nonostante tutto, in questi anni sono stati registrati dei progressi. Infatti, sono stati realizzati importanti investimenti nelle infrastrutture scientifiche, nella formazione delle risorse umane, in gran parte attraverso l’Alliance for Accelerating Excellence in Science in Africa (Aesa). Nel 2015 l’Accademia Africana delle Scienze ha dato vita a questa alleanza in partenariato con l’Agenzia per lo Sviluppo dell’Unione Africana (African Union Development Agency – Nepad). Al presente i programmi di ricerca e formazione dell’Accademia operano nell’ambito dell’Alleanza. La sua missione è fare dell’Africa il centro di gravità della scienza africana, evitando la fuga senza ritorno dei cervelli nei Paesi industrializzati (brain drain) attraverso la definizione di programmi, la mobilitazione di investimenti per la ricerca e lo sviluppo e la gestione di programmi scientifici. Da rilevare che l’Aesa ha finanziato direttamente 186 beneficiari. Alcuni di loro offrono a loro volta borse di studio per master, dottorati di ricerca e post-dottorati. Questo indirizzo ha contribuito a formare una comunità scientifica africana che conta oltre 2mila scienziati in circa 40 Paesi. Tra i programmi in cantiere figurano Deltas Africa e Grand challenges Africa che portano avanti la ricerca sulle principali malattie infettive, le malattie tropicali neglette e altre patologie.

Naturalmente gli sforzi fin qui profusi, grazie anche ad aiuti internazionali, sono apprezzabili, ma la situazione economica e sociale in cui versa oggi il continente africano a causa della pandemia di covid-19 sono preoccupanti. La chiusura delle frontiere, la forte limitazione degli scambi commerciali, unitamente alla sospensione delle attività didattiche in molti Paesi e alla sofferenza del sistema sanitario a livello continentale, sono tutti fattori che stanno acuendo l’esclusione sociale. Sta di fatto che le diseguaglianze si traducono nella perdita di molti talenti potenziali per la scienza tra le giovani generazioni. A ciò si aggiunga lo sfruttamento, da parte di imprese straniere, delle immense ricchezze naturali di cui dispone il continente; una fuga di capitali che indebolisce fortemente il welfare degli Stati. In questo contesto la ricerca rischia di rimanere una sorta di appendice nell’agenda dei governi. «Fino a quando la scienza africana non sarà svolta prevalentemente in Africa, da africani e per gli africani, il pieno potenziale di questo lavoro non sarà mai realizzato» stigmatizzano Marincola e Kariuki.

I Paesi dell’Unione africana (Ua) si sono tutti impegnati a stanziare l’1 per cento del rispettivo Prodotto interno lordo alla ricerca e allo sviluppo, ma spendono in media lo 0,45 per cento. È evidente che l’attuale congiuntura economica non aiuta, ma è importante non gettare la spugna. I finanziatori stranieri tendono a concentrarsi sulla salute e sulla ricerca medica. Questo è lodevole, ma non basta.

Vi sono numerosi campi in cui la ricerca africana deve essere messa nelle condizioni di poter manifestare il proprio genio. E di testimonianze significative a questo riguardo ve ne sono già state numerose in Africa. Basti pensare alla figura del compianto senegalese Cheickh Anta Diop (1923 –1986), professore universitario di fisica nucleare, presidente dei ricercatori e scienziati del Terzo Mondo, vicepresidente del comitato scientifico per la Storia generale dell’Africa dell’Unesco. Figura poliedrica, Diop portò avanti con passione studi e ricerche di storia africana, egittologia, linguistica, antropologia, economia e sociologia. Nel 1974 pubblicò The African Origin of Civilization: Myth or Reality.

In questo saggio, attraverso analisi e riscontri antropologici e archeologici, sostenne la teoria dell’origine nera dei faraoni. Le sue tesi furono contestate da chi vi vide delle forzature per promuovere un’africanità militante (anche se le scoperte più recenti dell’archeologo Charles Bonnet nel sito di Kerma avvalorano alcune ipotesi di Diop), ma servirono a mettere in evidenza come in passato la maggior parte degli studiosi europei avesse quasi del tutto ignorato la possibilità dell’esistenza di civiltà precedenti al colonialismo. La sua fu la ricerca di un’identità afro che per certi versi è modello e paradigma della sete di conoscenza di un intero continente.