Ci avviciniamo ai 160 anni dell’Unità d’Italia, che nel 2021 cadono in piena pandemia e senza eventi pubblici o manifestazioni di piazza. Chi scrive ricorda bene i fasti di dieci anni fa, quando su iniziativa dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 17 marzo 2011 fu considerato un giorno festivo, ricco di convegni e cerimonie nelle principali città italiane.

Cosa resta oggi di quel clima? Ben poco, nel Paese prevalgono perlopiù stanchezza e disillusione.

Proviamo allora, in questa sede, a riflettere brevemente sul concetto di Stato e di nazione.

Gli Stati si formano, si trasformano e talvolta muoiono: le nazioni invece – come ebbe a dire Papa Benedetto XV nel luglio 1915 – “le nazioni non muoiono mai”. E anche quando, dopo ogni conflitto, è sembrato possibile superare questa condizione, si è sempre trovato nell’immigrato e nello straniero l’oggetto grazie al quale ritrovare la propria “identità”, parola magica che starebbe a sorreggere tutto l’impianto teorico dei “nazionalismi” (di qualsiasi provenienza). Le identità sono potenzialmente infinite: al limite, tante quanti gli esseri umani che vivono sullo stesso pianeta. Partendo da questo dato, abbiamo creduto di trovare facilmente elementi identitari comuni, che ci avrebbero aiutato a dimostrare che tutti gli esseri umani sono uguali e hanno diritto a veder rispettati i loro diritti fondamentali; ma viceversa abbiamo dovuto constatare che troppe identità (ovvero troppe diversità) non sono riuscite a trovare un ruolo totale e cosmopolitico, così che a molti è sembrato più saggio tornare a tracciare confini, raggruppare coloro che si intendono e soprattutto tenerli separati da quelli con i quali non si intendono.

E allora perché non proporsi anche di recuperare vecchie logiche di confine, ripristinare muri, fili spinati e check points? In altre parole, “separandoci” visto che il movimento opposto ha prodotto così tanti disagi? Storicamente il concetto di “nazione” ha creato certi disagi (guerre civili, secessioni, conquiste, separatismi, ecc…) ma ha avuto anche una funzione importante nella vicenda della progressiva formazione degli Stati e in quella della loro interdipendenza, liberazione, possibilità di autogovernarsi. Ad esempio, in Vietnam non sarebbe stata scritta una delle pagine più importanti della storia di liberazione coloniale se la nazione non avesse avuto la forza trainante e coesiva che ebbe. Così fu per l’Algeria e per tutti quei Paesi (circa una cinquantina) che negli anni ’60 del Novecento raggiunsero l’indipendenza. Si tratta, in ogni caso, di vicende che perlopiù si consumano e terminano nel momento di conseguimento del risultato.

Se così non è, se cioè il mito nazionale sopravvive al conseguimento della nazionalità, ciò ha spesso finito per causare più danni che risultati. Il caso italiano è esemplare: l’unità italica non fu il prodotto di grandi slanci ideali, o meglio lo fu soltanto in parte: una volta costituita in Stato e nazione indipendente, si alleò addirittura con gli ex nemici dell’impero austroungarico. Da alleata di questi ultimi, finì per entrare nella “Grande Guerra” contro di essi. Il primo dopoguerra fu noto soprattutto per la “vittoria mutilata” e il nazionalismo diventò uno dei miti simbolici su cui il fascismo costruì il consenso interno e la sua immagine internazionale. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale l’Italia approda finalmente a un sentimento sovranazionale che ne fa uno degli attori principali (oltre che uno degli Stati fondatori) dell’attuale Unione Europea. Il cui europeismo è ancora oggi uno dei tratti principali del Paese.

La chiave di lettura di questa riflessione sta dunque nell’internazionalità che supera il localismo, nel riconoscimento reciproco tra popoli, razze, lingue e culture che si integrano, nell’accettazione di norme giuridiche comuni rivolte a produrre gli strumenti di regolazione per le esigenze della vita associata. Avrebbe, tutto ciò, conseguenze negative o destabilizzanti? Non proprio, perché in realtà non si tratta di modificare gli Stati o i loro confini, né di suscitare o esasperare confitti ma di sopirli, superandone le motivazioni. Si tratta di guardare ad altro: dalla nazione allo Stato, dallo Stato alla democrazia e dalla democrazia alla pace. Sappiamo bene che non si tratta di nulla di prossimo (e forse neppure di probabile) ma se almeno i nostri strumenti di analisi ci consentissero di capire meglio il mondo in cui viviamo, forse anche le nostre contraddizioni attuali (chiusure o aperture) potrebbero essere vissute, elaborate e talvolta perfino risolte in modo pacifico. Cioè democratico.