Uomini di strada e uomini di Palazzo: la morte inciampa in via della solitudine.

Più casi di abbandono e disperazione ci ricordano le parole di Billie Holliday. “Nella mia solitudine, mi perseguiti […] Nella mia solitudine, mi prendi in giro […] Siedo nella mia sedia, pieno di disperazione […] Siedo e guardo, so che presto impazzirò. Nella mia solitudine, prego, caro Signore lassù, rimandami il mio amore”.

Giovanni Federico

Giorni fa è stato trovato un barbone morto in una via del centro di Roma. La notizia di per sé non meriterebbe alcun clamore. Non è il primo e non sarà l’ultimo poveraccio stecchito per terra o su una panchina, con la vita già da un’altra parte. Forse, abituato, come è stato per tanti anni, sarà a mendicare anche l’ingresso in Paradiso, anche se garantiscono che non ce ne sia bisogno. Gli sarà servito a non perdere la mano, l’unica arte che può portare in dote. Eppure ha trovato spazio sulla cronaca locale perché il cadavere ha preso posizione, facendosi largo, proprio in mezzo ad uno dei punti di raccolta di immondizia. Ci sarebbe da pensare ad un ultimo gesto di generosità verso il prossimo. Gli spazzini non dovranno darsi un gran da fare a trascinarlo. Basterà buttarlo dentro al cassonetto di fianco a dove l’hanno scoperto e le cose potranno continuare a marciare. 

Vicino al corpo anche una stria di sangue per dare una tinta di giallo alla faccenda. Può darsi una lite tra poveracci o qualcosa del genere. Resta la sorpresa per la sensibilità con cui si sarebbe trascinato, morente, in armonia con i rifiuti che non lo hanno mai abbandonato. Ora si stanno occupando di lui, per venire a capo di un eventuale rompicapo. Il barbone sente finalmente un mondo che gli si muove attorno, indaffarato sul suo perimetro di uomo. Aliti su aliti per dargli vita almeno da morto. C’è adesso un calore di pensieri, sia pur di estranei, a scaldargli la bara. C’è, a riscatto, un colore di ipotesi sulla sua fine che schiacciano per sempre il grigiore in cui ha vissuto.

Altrove si crepa con un tetto sulla testa ma senza che la solitudine ti faccia sconti. Non è la favola di Esopo del topo di città e del topo di campagna ma c’è qualcosa su cui riflettere. Qualche mese fa se ne è andato all’altro mondo uno di quelli che abitano nelle così dette case popolari.“Nella mia solitudine, mi perseguiti, con fantasticherie, di tempi passati. Nella mia solitudine, mi prendi in giro, con ricordi, che non moriranno mai. Siedo nella mia sedia, pieno di disperazione. Nessuno può essere così triste, c’è malinconia dappertutto. Siedo e guardo, so che presto impazzirò. Nella mia solitudine, prego, caro Signore lassù, rimandami il mio amore”. Queste le inequivocabili parole dalla voce perennemente graffiata e stanca di Billie Holiday che canta di ricordi indelebili, che non potranno mai essere rimossi dal cuore di chi ha patito un dolore a causa di un altro, che forse ne ha preso consapevolezza e spera invece nel riscatto. 

È un tema in linea con i versi di Paul Eluard: “Non può esserci salvezza sulla terra. Finché si può perdonare ai carnefici”. Tant’è che Jacques Derrida riflette sul caso che non si può perdonare se non l’imperdonabile. È un esercizio che non è stato messo in uso nella storia di Mario. Un bancario caduto in disgrazia dopo la separazione dalla moglie e abbandonato dai suoi tre figli. Abitava in una casa dell’Ater. A tergo del suo ego, carattere scorbutico, c’è stato comunque un uomo. Vedere di sotto al suo ruvido pelo è un impegno che nessuno si è dato. Ater è un personaggio della Bibbia, della famiglia di Ezechia, che mise al mondo appena novantotto figli, probabilmente prevedendo che se tre di essi lo avessero trascurato, altri in buon numero lo avrebbero sostenuto. Ater è anche un aggettivo latino che significa nero, scuro, cupo, triste o maligno. Qualcosa che si è adattato perfettamente al destino di Mario che aveva la casa, in modo più che intonato, in via Pelù: un nome che riconduce, nella sua radice antica, alla palude, ad aree acquitrinose, umide e torbide.

Tutto sa di morte nei passi di Mario, portato in obitorio senza che si trovasse un familiare disposto a pagarne i funerali, men che meno a presenziarvi. Obire è un “andar verso”. Mario è andato incontro al suo giorno supremo da solo, perché accusato di avere un carattere insopportabile.I vicini del palazzo e di zona ed i suoi tre figli si direbbe oggi che non l’hanno retto: semmai eretto a qualcuno da evitare. 

Mario ora è solo un cadavere, ma fa ancora paura. Nessuno gli si è voluto avvicinare, neanche solo a un tiro di una manciata di soldi per saldarne il conto delle esequie. Al primo posto, in anticipo su tutto, sempre la conta delle ferite accusate per sua colpa. La sua discendenza non ha nome di Fede, Speranza e Carità. Evidentemente si è distratta la Fata Smemorina, non facendo dimenticare i mali subiti per mano di un padre che avrà fatto ingoiare un buon numero di rospi alla sua progenie. 

Mario, per il suo circondario, assediato dalla sua fama, è stato brutto come un rospo; non ha avuto alcun bacio per mutarsi in Principe. La sua pelle è rimasta quella di uno che in 90 anni di vita avrà sparso torti sul suo cammino. La vicenda è di questi giorni, avvenuta curiosamente nel Municipio di Grantorto in provincia di Padova. Mario se ne è andato il giorno del 13 dicembre, la ricorrenza di Santa Lucia, ma non ci sono stati miracoli. A nessuno si è allungata la vista del cuore.