Vincenzo Cesareo: “Dobbiamo affrontare le sfide del futuro nell’ottica della sostenibilità”.

Professore emerito di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano. Direttore della rivista «Studi di Sociologia», è segretario generale della Fondazione ISMU per lo studio della multietnicità e membro della consulta del Centro di prevenzione e difesa sociale e del comitato scientifico dell’Istituto di ricerca Gemelli-Musatti sui problemi della comunicazione. Considerato uno dei padri della sociologia italiana del secondo Novecento, ha introdotto la "sociologia dell'educazione" nelle discipline universitarie."

Prof. Cesareo come si è modificata la società italiana nei primi due decenni del nuovo secolo, tra crisi delle istituzioni e comportamenti sociali? Di conseguenza in che misura si è differenziato e ampliato il campo di indagine della sociologia, in relazione ai processi di differenziazione, mutazione, evoluzione che hanno interessato la famiglia, la scuola, la politica ma anche gli interessi e le abitudini della gente?

La ringrazio per questa domanda che mi permette di affrontare subito un tema a me caro e che è sempre stato al centro della mia attenzione come studioso e come “accademico”, vale a dire la questione dello statuto della sociologia. E’ mia convinzione che i processi di complessificazione sociale abbiano avuto, sulla nostra disciplina, due fondamentali effetti, che sono, per certi versi, le due facce di un’unica medaglia. Da un lato, infatti le più significative trasformazioni degli attori e dei processi sociali hanno permesso alla sociologia di ampliare lo spettro delle proprie analisi e di perseguire percorsi di ridefinizione in senso transdisciplinare e interdisciplinare. Dall’altro proprio il moltiplicarsi degli oggetti di studio, così come il confronto e a volte l’ibridazione della scienza sociologica con le altre scienze sociali ha rischiato di indebolire lo statuto epistemologico della sociologia. A questo processo ha inoltre significativamente contributo la temperie culturale “postmoderna” e la sua enfasi sul “pensiero debole”.

Gli studiosi concordano nel definire ‘complessa e critica’ questa fase epocale mentre le persone ne vivono le difficoltà e le contraddizioni nel quotidiano. Oltre la decadenza delle ideologie, il relativismo dei valori, il deterioramento ambientale e la crisi economica quali sono i fattori che più profondamente hanno inciso nei cambiamenti in atto? In questa fase critica di emergenza sanitaria per il Covid-19 si ha la sensazione di vivere una deriva ‘usurante’: consumare il mondo vivendolo intensamente ed esserne sconfitti….senza sapere cosa resterà.

Come già parzialmente affermato in risposta al primo quesito, ritengo che quella che definisco “ideologia postmoderna” abbia davvero contribuito in maniera significativa a determinare una vera e propria “mutazione antropologica”.

E’ profondamente mutata la nostra idea di soggettività. Se da un lato, infatti, è vero che i processi e i cambiamenti cui anche lei faceva riferimento nella sua domanda hanno sicuramente contributo a liberare le persone dal rischio della “gabbia d’acciaio” di weberiana memoria, offrendo a ciascun individuo un livello di libertà prima impensabile, è allo stesso tempo vero che questo affrancamento e questo “eccesso di libertà” sono alla base dei fondamentali problemi di senso che le persone oggi vivono e percepiscono sulla propria pelle. Il postmoderno ha salutato questa nuova “condizione umana” come l’espressione della più grande emancipazione del soggetto, divenuto finalmente unico artefice della propria vita e libero di sperimentare continuamente con se stesso e con la ricerca della propria identità. L’identità stessa, come ha più volte sottolineato anche Z. Bauman è divenuta un “bene di consumo”, destinato a durare per un breve periodo di tempo, fino a che verrà rimpiazzato da uno più convincente o semplicemente più “seducente”. Siamo diventati “consumatori di identità” e collezionisti di esperienze. A eclissarsi, in questa superfetazione della libertà, è la responsabilità.

La storia consente di riscontrare che spesso a grandi epidemie hanno fatto seguito rilevanti mutamenti politici, sociali ed economici. Anche in base a questi precedenti, si è diffuso il convincimento che – dopo questa guerra mondiale combattuta contro un nemico sconosciuto e invisibile – “nulla sarà come prima” e quindi le nostre società dovranno cambiare sotto molteplici profili, per ora non facilmente identificabili. In particolare, si auspica che l’angosciosa esperienza del Covid-19 dovrebbe fare maturare e diffondere il convincimento che apparteniamo tutti a una medesima umanità, che siamo tutti potenzialmente a rischio di contagi, che il benessere di ciascuno è sempre più connesso con quello degli altri vicini e lontani, che – per riprendere l’efficace espressione di Papa Francesco – siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo remare tutti assieme. Insomma, la lezione che dovrebbe scaturire dall’esperienza diretta o indiretta del Coronavirus dovrebbe essere quella di imparare a diventare più umani.  L’esperienza di forzata latenza ci può portare a riscoprire il valore delle relazioni umane dirette (face to face) e dello stare insieme con gli altri, a riconoscere l’importanza della comunità, contraddistinta da relazioni calde, e non la primazia della società, in cui prevalgono le relazioni fredde.

Tutto ciò potrebbe forse anche rimettere in discussione il nostro modo di vivere pre-virus. In particolare, va rimesso in questione quell’iperindividualismo tanto diffuso ai nostri giorni e che costituisce uno dei tratti distintivi, se non addirittura il principale, del narcisista, tutto centrato egoisticamente su se stesso e dove gli altri diventano rilevanti esclusivamente nella misura in cui servono e sino a quando servono, cioè in termini meramente strumentali, in base al principio “usa e getta”. Nello scenario qui delineato e auspicabile, dopo il tempo traumatico della pandemia, potrebbe seguire il tempo della rinascita all’insegna dell’“umanità ritrovata”, con tutto quanto ne conseguirebbe in termini di valorizzazione delle persone, di ogni persona indipendentemente dalla cultura, dall’etnicità, dalla posizione sociale, dall’essere nativo, immigrato o profugo, poiché tutti siamo sulla stessa barca che è il nostro mondo.

A tale scenario, ottimistico e auspicabile, è corretto però affiancarne un secondo nel quale il cambiamento provocato dal virus consisterebbe non nell’apertura umanitaria, ma nella chiusura a riccio. Pertanto, si palesa quindi il rischio che, come reazione al Coronavirus, si diffonda un altro tipo di virus, per l’appunto quello dell’egoismo a livello sia individuale sia collettivo.

Oltre a questi due opposti scenari, per completezza tipologica ne va aggiunto un terzo: quello in cui si prevede che, trascorso il periodo del virus, tutto cambi nel senso che nulla cambi. Una volta superata la paura e la crisi, l’impegno si concentra nel cercare a tutti i costi di ritornare alla vita di prima sforzandosi di dimenticare il Coronavirus, ritenuto un mero incidente di percorso, cioè una brutta parentesi della vita da cancellare quanto più possibile. Solamente col trascorrere del tempo si potrà cogliere quale sarà il reale impatto del Covid-19 sulla nostra vita individuale e collettiva. Per ora si può soltanto ritenere che se prevarranno le persone che hanno ritrovato “l’umanità”, aumenteranno i valori di responsabilità e di solidarietà; se invece prevarranno quelli che hanno accentuato la loro chiusura egoistica, quei valori verranno drasticamente ridimensionati; infine, se prevarranno le persone che intendono riprendere la propria vita con le stesse modalità pre virus, sorgeranno non pochi problemi, in quanto la realtà sarà in qualche modo comunque mutata.

Nonostante si viva in un’epoca di potenzialità straordinarie – per le innovazioni scientifiche, l’innalzamento delle aspettative di vita, un benessere diffuso e percepito (ricordo che il Cardinale Tonini mi aveva detto: “E’ questo il tempo per fare del bene…) permane un sensazione di instabilità, di incertezza, di poca coesione sociale su valori forti e condivisi. Manca il cemento per il bene comune. Prevalgono l’individualismo, l’isolamento, la diffidenza, le insicurezze esistenziali ed emotive. Abbiamo costruito una realtà sociale più grande di noi, un contenitore dove fatichiamo a trovare una nicchia di serenità, un ‘moloch’ che genera solitudine ed egoismo? De Rita parla di società mucillagine, di persone come coriandoli isolati: Lei, che è considerato uno dei padri della sociologia, come la vede dal Suo punto di vista?

Mi trovo in sintonia con le opinioni che riporta e con i loro autorevoli sostenitori. La crisi  – non intendo solo quella economica ma quella di “senso” – attuale ha consentito alla sociologia di riprendere in mano le sue stesse categorie fondative. Come sappiamo, è proprio quando le cose sembrano vernir meno che ne riscopriamo l’importanza. Così è accaduto, ad esempio, per il concetto di solidarietà sociale, termine che fa la sua comparsa con Durkheim e che costituisce la conditio sine qua non per poter parlare di “società”. Per dirla con Crespi e Moscovici è proprio la solidarietà sociale a essere in questione. Io chiamo “frammentazione”  questa particolare condizione.

In una società dalla solidarietà precaria la ricerca del senso è “privatizzata”. E’ una ricerca sicuramente più faticosa, ma anche più esposta all’influenza di “nuove agenzie” del senso, se posso permettermi questa espressione. Penso innanzitutto ai media, al mondo del consumo. Da queste “agenzie” provengono modelli antropologici che definisco “minimalisti”, che rinchiudono lo stesso senso al ristretto orizzonte del presente, del “quotidianismo”, dello “spazio estetico” che ha preso il sopravvento sullo spazio etico. Per definire il modello di soggettività oggi prevalente mi sono avvalso, nei miei ultimi lavori, del termine “homo psychologicus” per evidenziare, in particolar modo, la tensione all’individualismo e al narcisismo che prevalgono oggi nella ricerca individuale del senso.

Tra le vistose accelerazioni in atto molto interessa da vicino i comportamenti dei giovani che esprimono nuove abilità ma anche stili di vita in alcuni casi problematici. Dopo il fenomeno della diffusione delle droghe è di questi giorni l’allarme lanciato sull’abuso degli alcolici, a cominciare dalla primissima adolescenza. Rifiuto delle tradizioni e delle gerarchie, atteggiamenti di bullismo, contesti familiari diseducativi o privi di relazioni affettive e di dialogo con i genitori, modelli sociali ispirati al rampantismo del tutto e subito, Tv e letture spazzatura: si invoca l’intervento della scuola, il recupero del concetto di autorità, le valvole di sfogo dello sport e dell’associazionismo. E’ una battaglia persa in partenza o davvero tutte le responsabilità di recupero e correzione sono affidate all’educazione e all’istruzione? La scuola ce la può fare da sola?

Guardi, sui giovani credo di avere una posizione un po’ dissidente rispetto alle tante visioni – in alcuni casi anche fondatamente – apocalittiche. Come sociologo mi sono sempre interessato, fin dagli esordi del mio lavoro di ricerca, alla condizione giovanile, animato anche dall’ottimismo e dalla fiducia che nonostante tutto continuo a provare nei confronti delle nuove generazioni. Ed è proprio studiandole che ho potuto accorgermi, anche in questi ultimi anni, che nonostante la frammentazione che sono costrette a subire, esistono, nelle loro vite, anche significativi germi di “ricomposizione”.

L’importanza che attribuiscono ancora alla famiglia e al lavoro, ad esempio, una certa tensione alla ricerca di percorsi biografici almeno in parte lineari è un dato che è emerso dalle ultime ricerche che ho potuto svolgere in proposito. Permane, questo è vero, una certa indifferenza nel cercare una ricomposizione che trascenda il livello individuale per abbracciare anche una progettualità aperta al sociale, alla sfera dell’azione collettiva, all’impegno politico. Ma alcuni timidi segnali stanno giungendo anche su questo fronte. Certo questo non ci esime, come società, a cercare di aiutare, sostenere e incoraggiare i giovani nella costruzione dei propri progetti. Rimane però fondamentale un dato di fatto che dovremmo davvero imparare ad assumere come premessa a ogni ragionamento in proposito: l’epoca “fordista” delle tutele, del “posto di lavoro fisso” e via dicendo è irreversibilmente tramontata.

Dovremmo insegnare ai giovani a ricercare il loro equilibrio esistenziale senza fare più riferimento a questo paradigma. Quanto ai media, si sa, operano sempre in base a valori notizia e criteri redazionali che finiscono, per necessità intrinseche alle loro stesse procedure, a magnificare gli aspetti più notiziabili che, come ormai abbiamo imparato, sono sempre anche i più sensazionalistici. Non mi stupisco quindi se la “silenziosa normalità” finisce col rimanere sotto traccia rispetto a eventi negativi che sono episodici, ma allo stesso tempo più notiziabili. Credo tuttavia che l’avvento di strumenti di informazione in tempo reale come la rete “costringano” i giornali a reinventarsi dando più spazio all’approfondimento e perché no, alle inchieste sociali. Ci sarà allora anche maggiore possibilità di mettere in luce la normalità silenziosa. Almeno me lo auguro.

Parliamo degli anziani, della terza età: non assistiamo solo a un dato statistico di longevità anagrafica ma alla riscoperta di potenzialità intellettive, di interessi culturali, di aggregazione, persino di emozioni e di affetti. A volte – però – emergono situazioni di solitudine e di abbandono, di nostalgica emarginazione. Non Le sembra che questa fascia di età meriti maggiore considerazione sociale? Il Coronavirus sta operando una sorta di selezione delle persone più deboli, anziane, ammalate: cosa sta succedendo?

Anche gli anziani sono sempre stati presenti nelle mie riflessioni e nelle mie ricerche. Per esempio sono uno stato uno dei primi, a partire dagli anni ’80, a introdurre la categoria di “anziano attivo”. Credo che l’uscita dal modello fordista e soprattutto dal modo in cui questo finiva per organizzare, socialmente, il ciclo di vita delle persone, possa e per certi versi abbia contribuito a una rivalutazione delle fasi “più mature” del ciclo di vita. Contrariamente a quanto avveniva fino a pochi anni fa, il lavoro non costituisce più l’unico fattore  determinante per la costruzione della propria identità sociale. Le persone che, in virtù della loro elevata età devono abbandonare il lavoro hanno secondo me più strumenti per vivere questa fuoriuscita meno traumaticamente di quanto poteva accadere tempo fa. Se mai un problema diverso per quelle che sono oggi le giovani generazioni è immaginare se e come potranno congedarsi definitivamente dall’attività lavorativa. E’ una questione che, ovviamente, riguarda in prima istanza il futuro del nostro sistema di welfare.

Riguardo all’età, alla sua percezione e costruzione sociale, la società e la cultura contemporanee sembrano porci davanti a un paradosso: gli standard di performatività richiesti a ciascuno di noi, la velocità delle trasformazioni culturali si sono talmente innalzati che oggi, anche se anagraficamente e biologicamente “giovani” è più facile sentirsi “vecchi”. Per questo è fondamentale che gli adulti di oggi non rinuncino a un processo e a un progetto di formazione continua. Sentirsi giovani non è solo un fatto di “freschezza fisica”, ma sempre più anche mentale.

Non dimentichiamo infine che se pensiamo a una peculiare figura di anziani, ovvero i nonni, non possiamo non riconoscere l’importante funzione che ancora svolgono all’interno delle nostre società tardo-capitaliste. Come affermano anche numerose ricerche, la famiglia di origine continua a essere la rete di sostegno fondamentale per le famiglie elettive formate dai figli delle prime.

Anche a tale riguardo, la storia ci insegna che le pandemie hanno sempre colpito soprattutto le persone fisicamente fragili, quali sono emblematicamente gli anziani, in quanto meno in grado di difendersi da questo genere di attacchi. Tale peculiarità, è confermata anche dall’impatto del Covid-19, che registra una marcata prevalenza di contagiati e pure di decessi, proprio tra costoro, che comunque presentano una speranza di vita che tende ad aumentare in maniera significativa.

Ma è opportuno domandarci: come viene considerata questa categoria di persone, in particolare i nonni, più precisamente essi costituiscono una risorsa oppure un peso pressoché inutile che si deve sopportare?

Per rispondere a questo interrogativo, è necessario partire da una constatazione sulla cultura della società contemporanea, che tende a enfatizzare il presente, mentre trascura il passato e cresce l’incertezza nei confronti del futuro, incertezza che si è decisamente accentuata a seguito dell’attuale pandemia. Di conseguenza, questo diffuso orientamento culturale non induce a riconoscere ai nonni una rilevanza significativa nel contesto attuale, proprio perché rappresentano il passato, ritenuto sempre meno rilevante.

Se però prendiamo in considerazione i fatti, cioè le situazioni concrete, si rileva molto chiaramente che i nonni svolgono dei compiti significativi e spesso indispensabili. Infatti, spesso queste persone:

  1. contribuiscono finanziariamente a far fronte alla spesa dei figli e dei nipoti;
  2. svolgono una funzione di supplenza genitoriale nei confronti dei nipoti, contribuendo a quel welfare informale e familiare che costituisce una componente significativa, sebbene scarsamente valorizzata, del sistema di welfare del nostro paese;
  3. consentono, attraverso le indispensabili relazioni intergenerazionali, di assicurare un legame con il passato e quindi con la storia che è essenziale ma che, come precedentemente accennato, oggi è pericolosamente trascurato, con le sue tradizioni e le radici delle popolazioni.

Alla luce di queste tre constatazioni che riguardano rispettivamente aspetti economici, sociali e culturali, i riscontri empirici consentono di rispondere al quesito posto in precedenza – nella concretezza delle situazioni esistenziali, i fatti dimostrano che i nonni costituiscono una risorsa, la quale diventa preziosa in particolare in momenti contraddistinti da notevoli difficoltà e incertezze, come quello attuale.

Si evidenzia pertanto, una contraddizione tra l’oggettiva rilevanza di molti nonni, per cui vanno considerati come risorsa, e quanto poco venga riconosciuto il loro impegno, fino ad arrivare ingiustamente a ritenerli un peso. Di qui il dovere di rivalutare questa particolare ed essenziale categoria di persone per le ragioni che ho sottolineato.

I fenomeni di immigrazione-emigrazione, gli sdoganamenti burocratici ai progetti di vivere e lavorare altrove, le forti spinte ai rimescolamenti etnici, religiosi e sociali ci stanno abituando a nuovi contesti di vita, paventano nuovi pericoli, prospettano nuove opportunità. Si pone un problema di rapporto tra radici, appartenenza e identità da un lato e  melting pot socio-culturale dall’altro. Ci sono tendenze contrapposte: locale versus globale. In quale direzione ci stiamo muovendo, che cosa si può conservare del passato e da che cosa possiamo invece essere travolti per il futuro, oltre le nostre più o meno consapevoli resistenze?

Ritengo che la sfida, anche per il prossimo futuro, sia sempre e sostanzialmente quella di sempre: saper mantenere una posizione di equilibrio. Nelle scienze sociali è divenuto di moda, e ormai quasi irrinunciabile, il concetto di “sostenibilità”. Si tratta di una parola chiave nata all’interno della sociologia dell’ambiente, per indicare quelle forme di sviluppo compatibili con il rispetto dell’ambiente e delle risorse. Penso che si possa utilizzare questo concetto anche metaforicamente in ogni dimensione della vita sociale. Affrontare le sfide del futuro nell’ottica della “sostenibilità” significa allora non farsi paralizzare dalla paura e regredire al sogno di forme di vita “premoderne” come accade per alcune forme estreme di neocomunitarismo, ma allo stesso tempo non perdere nemmeno, in nome del nuovo, il proprio radicamento alla tradizione, al contesto e persino al territorio. Come afferma  Dahrendorf, uno studioso che mi piace spesso citare e al quale mi sono spesso rifatto nei miei lavori, dobbiamo trovare sempre un equilibrio tra le opzioni e le legature. Senza legature, cioè senza dimensioni di appartenenza, le opzioni divengono infatti astratte e spesso anche prive di senso per la persona. Mi permetta solo una parola più “specifica” riguardo alle sfide della società multiculturale: ecco, a questo riguardo ritengo fondamentale che le istituzioni politiche e le differenti culture cerchino di realizzare almeno un “consenso per intersezione”, impegnandosi a costruire, attraverso il dialogo e il confronto, un nucleo valoriale comune.

Mi permetta una domanda ricorrente per tutti gli intervistati, un argomento sul quale credo valga la pena di riflettere più a fondo. Riempiamo la nostra vita di tante cose: parole, acquisti, beni materiali, oggetti, musiche suoni, rumori…. Che spazio lasciamo al silenzio: è solo tempo perso o fonte di equilibrio e ravvedimento?

Come direbbe Giovanni Gasparini, sociologo collega e amico, il silenzio, nelle nostre vite è una dimensione sempre più “interstiziale”. Dobbiamo accontentarci, insomma, di piccoli intervalli di silenzio tra tante inevitabili e assordanti occupazioni quotidiane. Ma è proprio per questa sproporzione tra silenzio e rumore che quando riusciamo a stare un po’ nel primo questo può esprimere una radicalità impensata e portarci a rivedere in maniera significativa anche alcuni aspetti della nostra vita.

E’ poi vero che la nostra vita quotidiana tende a sopprimere il silenzio, ma è vero che in altri casi siamo noi a  volerlo rimuovere e forse proprio per questa sua capacità di agire in profondità sul nostro stesso essere e sulla nostra identità. Perché non utilizziamo mai le nostre vacanze per recuperare un po’ di quiete e silenzio  e preferiamo anche in quelle occasioni lo pseudo-divertimento evasivo, il divertissement o persino portare con noi il lavoro? Solo perché è davvero impossibile farne a meno? Non credo. Il silenzio è fondamentale per riscoprire quella “dimensione contemplativa della vita” di cui il cardinal Martini parlava fin dai primi tempi del suo mandato pastorale a Milano, città molto generosa per quanto riguarda il fare, forse un po’ meno abituata a “meditare”.

Vorrei esprimerLe una personale convinzione chiedendoLe un commento o un’aspra censura: io credo che la madre di tutti i problemi del vivere sociale,  della loro comprensione, del nostro essere ‘individui’ e ‘attori sociali’ consista nella differenza che separa la teoria dalla pratica. Circolano troppe parole e pochi esempi e non è  solo un problema di coerenza morale, di autenticità ma di  doppia identità, di dissociazione tra il dire e il fare. Mi sembra che il mondo di  oggi voglia convincere che conta più apparire che essere. E’ una mia ‘presunzione’?

Apparire ed essere, oppure essere e avere, se vogliamo rifarci a Fromm. Sono sicuramente antitesi capaci di illuminare alcuni fondamentali aspetti del vivere contemporaneo e di farcene comprendere le pericolose derive. L’immagine non può essere in sé il male. Ricordiamoci che Dio ci ha creati “a sua immagine”. Quello che forse dovrebbe preoccupare sono i cliché dai quali oggi ricaviamo le immagini che di noi vogliamo dare.

Goffman affermava che la società altro non è che un palcoscenico sul quale inevitabilmente recitiamo una parte, rappresentiamo una immagine di noi e dei gruppi sociali ai quali apparteniamo. Non è inganno, è un fatto strutturale al relazionarsi  socialmente. In fin dei conti come anche la sociologia di stampo fenomenologico ha mirabilmente illustrato, le nostre relazioni, la loro qualità dipendono sempre dalle immagini che ci facciamo di alter e che alter a sua volta si fa di noi. La vera sfida è allora quella di non fermarsi solo al livello più superficiale di queste immagini, così come saper esercitare un pensiero critico e riflessivo sugli immaginari che ci vengono tramandati e che osmoticamente assorbiamo nella nostra società comunicazionale.

Certo ci sono poi immagini che dovremmo lottare quotidianamente per abolire o per lo meno stravolgere: parlo degli stereotipi, soprattutto di quelli che si frappongono come ostacolo a ogni vivere civile, a ogni processo di integrazione dell’altro e del diverso-da-noi.