Nel giro di pochi giorni, Zamagni è tornato a parlare della vicenda emiliana. Lo aveva fatto, in precedenza, per criticare Bonaccini sul punto relativo alla gestione del dopo voto. Anche stavolta, nell’intervista a ”Famiglia Cristiana“ , ripete l’accusa: prima si è chiesto l’aiuto dell’associazionismo, anche e soprattutto cattolico, poi si è scelto di ignorare il contributo da esso garantito in campagna elettorale. Da qui discende un ragionamento che porta in evidenza la incapacità della sinistra – ma il discorso vale a maggior ragione per la destra – di “tenere la linea” nei rapporti con l’area del cattolicesimo democratico e sociale.

In effetti, gli argomenti di Zamagni non sono astratti e inventati. Ormai l’insofferenza che monta al “centro” della vita politica italiana, se non altro come ripudio del forzato bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica, costituisce un dato politico inequivocabile. Senonché, immaginare che il rilancio di una posizione politica consista nel semplice evocare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, assomiglia a un disagio camuffato da proclama politico. Cos’è questo ritorno al centro? Si riparte da Sturzo, De Gasperi e Moro, rinnovando la cultura e la tradizione democristiana, o si va a pescare nei mari procellosi dell’integralismo, vecchio e nuovo? Zamagni si spertica nel vuoto di una velleità pacioccona, ma non per questo meno complicata e deleteria.

Nell’intervista si dice che non vale l’opzione integralista. Di questi tempi, soffocati dai predicatori dell’identitarismo senza se e senza ma, è già molto. Poi però si dice che il distacco dall’ipotesi del “partito cattolico” deve intendersi nell’ottica della dissipazione di ogni equivoco, a tutto beneficio di un progetto aperto, comunque riconducibile a un’operazione ispirata ai valori e ai principi del messaggio cristiano. La precisazione funge in qualche modo da argano teorico per andare a risollevare la mediazione tra fede e politica, che fu alla base del cattolicesimo democratico fedele alla lezione di Maritain. Ma se fosse così, perché non asserirlo chiaramente? È evidente che sul punto, sempre molto delicato, si rischia di mancare a un dovere di chiarezza.

Più prudente è il discorso sulle conseguenze. Zamagni insiste, ad esempio, sulla possibile candidatura nel 2021 di un civico alla guida del Comune di Bologna, dando opportunamente il là a una critica serpeggiante in città sulla insufficienza dell’attuale Sindaco del Pd. Non è più una minaccia, ma una valutazione: segno che larvatamente riprende a farsi valere, nonostante le impennate di sdegno doroteo sulla mancata nomina di persone di fiducia nella giunta Bonaccini, un sano principio di discernimento a carattere eminentemente politico. Forse Zamagni ha pure avvertito il pericolo della sovraesposizione, essendo a capo della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, tant’è che ammorbidisce i toni per non incorrere nell’accusa di portatore d’acqua di un certo neo-clericalismo. 

Alla lunga questo approccio ancora oscillante, un po’ alla Dossetti e un po’ alla Gedda, è destinato a evolvere in senso più nitido e concreto. Se vuole far politica, Zamagni ha l’obbligo di dimettersi dal suo incarico in Vaticano. Sarebbe un gesto utile a rilanciare alcuni temi che per adesso anche lui ha solo agitato in mancanza di un chiaro progetto politico. Intanto fa piacere osservare che questa agitazione impone a tutti il recupero di interesse per il dibattito sul futuro del cattolicesimo democratico. Tempi nuovi si annunciano…