Zingaretti nella palude. Non ci obbliga, il ricordo di Moro, alla serietà della politica?

È difficile credere che il ceto medio riflessivo, spesso rintanato nell’astensionismo elettorale, sia attratto dalla competizione tra forze che si assomigliano nel loro armeggiare contro gli odiati burocrati di Bruxelles.

Zingaretti cerca di trascrivere in grassetto, sperando di ottenere un rilievo maggiore, l’indirizzo programmatico del Partito democratico. Si muove con apparente disinvoltura, benché una coltre d’incertezza, attorno allo stato maggiore, annebbi il suo disegno politico. L’opinione pubblica osserva la cosa con alterni sentimenti di attenzione e scetticismo. C’è un effetto di slittamento,  come in una palude inesorabile, che manda fuori giri il motore della politica del Nazareno.

La novità, in effetti, si gioca sul tentativo di sovrapporre al populismo dei Cinque Stelle il discorso sul ritorno al “popolo della sinistra”. Si tratta di una torsione ingiustificata – non doveva essere, questo partito, il luogo d’incontro dei riformismi, tanto di centro quanto di sinistra? – che finisce per indebolire la leadership di Zingaretti. Si scivola così nel pantano della demagogia. In modo obliquo, ad esempio, si lotta con eguale piglio contro l’austerità di marca tedesca, mettendo sotto accusa quei freddi parametri finanziari che in verità la Commissione europea custodisce e difende sulla base degli accordi intercorsi negli anni passati tra i 28 Paesi dell’Unione, Italia compresa.

È difficile credere che il ceto medio riflessivo, spesso rintanato nell’astensionismo elettorale, sia attratto dalla competizione tra forze che si assomigliano nel loro armeggiare contro gli odiati burocrati di Bruxelles. Zingaretti sottovaluta il rischio di consegnare il partito alla spirale della incomcludenza, poiché tale azione di aggiramento dei populisti – appunto sul loro stesso terreno – è destinata a non incrociare “il sogno di un’Italia che vuole tornare a crescere”, secondo il convegno promosso ieri dal Censis, ma a crescere non attraverso la brutta scorciatoia che la leva del deficit di bilancio regala illusoriamente e solo nel breve periodo.

Ora, quanti si collocano all’opposizione del quadro attuale di governo, registrano l’implausibilità di un messaggio al tempo stesso mellifluo e ringhioso, in particolare laddove si traduce nella minaccia di un ricorso alle elezioni anticipate, addirittura in estate. Zingaretti in questo modo scivola su posizioni a dir poco  bizzarre. In sostanza, la marcia di avvicinamento al M5S dovrebbe interrompersi bruscamente allorché, rompendo con Salvini dopo le europee, Di Maio si disponesse a un cambio di alleanze.

Ciò avrebbe senso, in effetti, se il rigore dell’antipopulismo fosse l’elemento incontrovertibile del Partito democratico. Quando invece predomina il tatticismo, nel presupposto che un andazzo mimetico aiuti oggi a riconquistare l’elettorato deluso, l’esito più probabile consiste  nell’accogliere domani l’invito alla sperimentazione di una nuova alleanza di governo. Altro che elezioni anticipate, spacciate per giunta come toccasana per il Paese! Manca la lungimiranza del disegno politico, manca il respiro di una proposta strategica. C’è un’Italia che rimane all’opposizione, non solo del governo ma anche della stessa opposizione odierna, perché non si sente rappresentata dal modo di intendere e prefigurare l’alternativa al blocco sovran-populista.  

Dunque, in questa ricorrenza del 9 maggio, con la mente rivolta alla lezione di Aldo Moro, viene da pensare quanto la politica esiga temperamento serietà e coerenza, un’insieme cioè di regole e attitudini che prima o poi una nuova forza politica, da molti evocata come cardine della ricostruzione morale e civile, dovrà finalmente incarnare.